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Arpad Weisz e la brava gente

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Il ricordo di Arpad Weisz dà un senso non solo al quarto di finale di Coppa Italia fra Inter e Bologna, con tanto di maglietta celebrativa, ma a un discorso sul razzismo che non si può ridurre ai 'buu' da stadio e alle decisioni prese da un questore secondo l'estro del momento. La storia dell'allenatore ungherese, che guidò prima l'Inter (all'epoca Ambrosiana) lanciando un giovanissimo Giuseppe Meazza e poi un Bologna che diede spettacolo in tutta Europa, è stata ben raccontata da Matteo Marani in 'Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo' (editore Aliberti). Di sicuro la sua parte vergognosa, per l'Italia, inizia nel 1938 quando le leggi razziali lo costringono, in quanto ebreo, ad intraprendere un viaggio nell'orrore che lo porta a morire nel 1944, appunto ad Auschwitz, a 48 anni. Se abbiamo scoperto come uomo Weisz attraverso il libro del direttore del Guerino, come tecnico lo abbiamo conosciuto grazie a un libro trovato proprio a Bologna. 'lI giuoco del calcio' il titolo, Aldo Molinari il coautore e di Vittorio Pozzo la prefazione. L'opera è del 1930 e colpisce per la precisione ed il dettaglio con cui sono descritte le situazioni tattiche per ogni singolo ruolo, dalle scelte da fare in inferiorità numerica alle sovrapposizioni. Filosofia molto 'inglese' nell'approccio sportivo, ma non in quello tattico: Weisz conosceva il Sistema (ricordato anche come WM) di Herbert Chapman, ma era di sicuro più vicino al Metodo di Pozzo. Oggi queste considerazioni sono patrimonio anche di un allenatore dilettante, ma in quegli anni di tecnici improvvisati (lo stesso Pozzo, al di là del mito, lo era) e mestieranti erano quasi una rivoluzione culturale. Significativo che il cognome in copertina fosse l'italianizzato Veisz e non Weisz, ben 8 anni prima delle leggi razziali. Ottimo calciatore, nazionale ungherese ai Giochi Olimpici di Parigi nel 1924, Weisz con l'Ambrosiana-Inter diventò nel 1929-30 il primo allenatore vincitore di uno scudetto nell'era del girone unico, che dura ancora oggi. Il record probabilmente imbattibile è quello di averlo vinto a soli 34 anni. Con una squadra che oltre a Meazza aveva campioni come Allemandi e Serantoni, oltre che un centromediano come Viani, che da allenatore sarebbe stato il primo ad introdurre in Italia il concetto di 'libero' (alla Salernitana, sul finire degli anni Quaranta) e da dirigente avrebbe fatto grandi cose con il Milan. Ma il miglior Arpad Weisz, dopo esperienze anche a Bari e Novara, è quello del Bologna: due scudetti (1935-36 e 1936-37), ma soprattutto spettacolo all'estero in un'era purtroppo pre-Coppa dei Campioni e pre-tutto. Era la squadra di Andreolo, nel primo scudetto supportato da Schiavio e nel secondo da Ceresoli e Biavati con Schiavio ormai agli sgoccioli. Nel 1938 uno degli allenatori più apprezzati d'Europa fu costretto ad andarsene dall'Italia, insieme alla moglie Elena e ai figli Roberto e Clara. Parigi, poi l'Olanda a Dordrecht dove Weisz riuscì anche ad allenare per qualche mese, infine Auschwitz. Ma soprattutto l'oblio, per decenni. Davvero inspiegabile. Come se Conte o Allegri fossero, per ipotesi, deportati in un campo di concentramento e a guerra finita nessun giornalista dedicasse a loro una riga per quaranta anni. Cattiva coscienza, per dirla in due parole, con messa in discussione della retorica tipo 'italiani brava gente'. Per questo ricordare non è mai banale. Per dirla con Hannah Arendt, ad essere banale è il male. Twitter @StefanoOlivari