I tifosi dello Zenit San Pietroburgo sono razzisti, quelli che espongono striscioni 'non ci sono negri italiani' invece solo piccole frange all'interno di una massa di sportivi veri. Stiamo ovviamente parlando dell'ultima prodezza degli ultras dello Zenit San Pietroburgo allenato da
Luciano Spalletti, che hanno diffuso un manifesto in cui si chiede senza giri di parole ai dirigenti dello Zenit di non acquistare calciatori di colore o gay. Sul sito dello Zenit Club Landscrona si leggono frasi come queste: "Non siamo razzisti ma vediamo l'assenza di giocatori neri nella nostra squadra come il perpetuarsi di un'importante tradizione dello Zenit. Permetterebbe allo Zenit di mantenere l'identità nazionale della squadra, che è il simbolo di San Pietroburgo. Vogliamo soltanto calciatori provenienti dai paesi nostri fratelli, come Ucraina, Bielorussia, le repubbliche baltiche e la Scandinavia. Noi abbiamo la stessa mentalità e lo stesso background storico e culturale di queste nazioni. E non vogliamo esponenti di minoranze sessuali in squadra". Bisogna ricordare che dai loro ultras, che male hanno digerito anche l'ingaggio del mulatto
Hulk (che comunque ha parzialmente deluso, a prescidere dal colore della pelle), hanno preso le distanze alcuni giocatori 'bianchi' e soprattutto Spalletti, ma al di là dello scontato biasimo può non essere banale riflettere su quello che il discorso dei tifosi dello Zenit sottende. In un un mondo magmatico, dove tutto è sempre più veloce e provvisorio, la fuga nel passato e la paura di evolversi verso nuovi modelli di società sono fenomeni normali. Che non si possono negare nel nome della correttezza politica. Rimanendo nell'orticello calcistico, cosa è in fondo la nostra retorica giornalistica sui giovani italiani che finalmente in questa stagione hanno spazio, al posto di imprecisati 'stranieri' (che peraltro quando avevamo i soldi correvamo a comprare in massa)? Quante volte nel recente passato abbiamo sottolineato, parliamo anche per noi, l'assurdità di squadre che non rappresentano niente e che non riescono a infilare nemmeno un ragazzo locale nella chilometrica e ridicola panchina a dodici? E avremo letto almeno cento articoli adoranti, anche su testate progressiste, sull'orgoglio basco, sull'orgoglio catalano, sull'orgoglio di Vattelapesca, tutta questa spazzatura sulle piccole patrie che inevitabilmente poi sfocia nel razzismo. Esaltare il Barcellona perché a volte ha in campo undici giocatori formatisi nella cantera è solo la faccia 'buona' della medaglia. In altre parole, quell'identità che a prescindere dal credo politico tutti consideriamo un valore positivo, si definisce non solo in positivo ma anche (ci verrebbe da dire soprattutto) in negativo. Chi non è 'noi' è ovviamente 'loro'. E l'equilibrio è inevitabilmente precario, perché non sempre lo 'straniero' è
Kubala, Cruijff, Maradona, Ronaldo, Messi (peraltro semi-canterano, essendo arrivato in Catalogna a 13 anni), ma a volte è un giocatore normale o peggiore di quelli cresciuti in casa. Poi è facile vergare un virulento editoriale contro qualche razzista di San Pietroburgo, stando in una calda redazione di Milano e Roma, ma è evidente che come spesso accade il calcio è una buona rappresentazione della società che lo circonda.