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L’anima pura di Maurizio Mosca

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Basta poco per capire com’è cambiato il giornalismo sportivo (quantomeno un certo tipo) e quindi forse come siamo cambiati noi. Bastano 54 minuti. O meglio bastavano: perché bisognava passarli ieri sera in un teatro milanese dove è stato proiettato in anteprima – e non sappiamo se ci saranno repliche, in tv, in libreria o chissà dove - il documentario Ricordando Mosca. Dove Mosca non è la città, ma è, era, Maurizio, morto ormai due anni fa e ricordato in questo filmato con interviste del nipote Simone a colleghi e amici frullate a filmati d’epoca da Andrea Sanna (quello che “conosce il segreto del pendolino”, diceva sempre Mosca a Guida al campionato, di cui Sanna era regista, mentre tentava di non indovinare i risultati dei match del giorno, riuscendoci sempre brillantemente). Risultati del documentario, due. Nell’immediato, le lacrime agli occhi: più che il rimpianto di chi non c’è più, per le grassissime risate nel rivedere gag, gaffe e scene che - drammaticamente - ricordavamo alla perfezione a vent’anni di distanza. Riflettendoci un po’, la consapevolezza che era in realtà uno spaccato d’epoca, di un’Italia non ancora incattivita come lo è adesso. E non stiamo a fare il discorso della crisi, dell’avvenire che è un buco nero in fondo a un tram. Facciamo il discorso di un calcio dove si poteva ancora esprimere la propria opinione senza subito essere accusati di essere a libro paga di Berlusconi, o rubentini, o prescritti, o tutte le asinate che si leggono in certi commenti. Di calcio si parlava per il divertimento di farlo, anche con faziosità, ma senza accuse di secondi fini o mistificazione. Mosca poi non tifava niente (anche se Gianni Mura, nel filmato, lascia capire che simpatizzasse per la Roma), quindi poteva permettersi di dire ciò che voleva. Anche se paradossalmente alla degenerazione del calcio parlato diede il suo contributo partecipando per anni al Processo di Biscardi. Ma queste sono le contraddizioni dell’animo umano. Il punto è un altro: è che Mosca, anche con tutte le sue esagerazioni e le sue baracconate, rappresentava l’anima pura del parlare di calcio. L'anima bambina. E i bambini amano Disneyland, dove ci sono fumi, colori, effetti speciali, risate. Lui aveva il pendolino, la macchina della verità, il pentolone, i travestimenti, il finto tribunale dell’Appello del martedì, Casa Mosca dove proponeva al pubblico angoscianti dilemmi come tè o caffè, slip o boxer, Aspirina o Zerinol, Dumbo o Bambi (a proposito di Disney). Erano tutti modi per parlare di calcio in modo sdrammatizzante. A volte troppo, e infatti le critiche non gli mancavano, anche a ragione. Ma con lui sapevi che non ti annoiavi, che di calcio ne capiva ma che mescolava il discorso con un po’ di comicità volontaria (“Ciccio Graziani, sei elegantissimo. A parte il vestito”), molta di involontaria e moltissima di non si sa bene quale categoria: le bombe di calciomercato in cui dava Totti al Cagliari, Conte all’Inter con Berti alla Roma, Gascoigne al Napoli dopo Maradona, la definizione di Rambert come un cannoniere di fama mondiale, erano cose dette per suscitare ilarità o sul serio? E soprattutto, chi se ne frega? Attiravano l’attenzione, e tanto bastava. E Mosca era bambino anche in un’altra cosa: nell’animo candido e puro. Amava i campioni, quelli che inventavano la giocata a effetto, cercava sempre di trovare la bellezza nel gioco e non amava parlare di complotti e furti. La partita finiva sul campo, il resto era show di contorno, da fare senza prenderlo e prendersi troppo sul serio (c'era anche una bella dose di autoironia, che è il prendersi in giro prima che lo facciano gli altri). Mosca è stato il simbolo di un’epoca del giornalismo, e forse dell’Italia tout court, anche perché è fisicamente decaduto in parallelo col decadere morale e politico del nostro Paese. Le ultime apparizioni, con la malattia che gli deturpava la pelle, erano più malinconiche che altro, a parte qualche guizzo suscitavano tristezza, come quei comici che non fanno più ridere come una volta, ma non lo ammettono e forse non lo ammette neanche il loro pubblico. Come Berlusconi, forse, e anche questo è un parallelo buono se ricordiamo che in una vecchia rubrica in cui la Gialappa’s lo sfotteva proprio mettendo in fila tutte le frasi in cui dava ragione al Cavaliere. Era berlusconiano in questo (oltre che probabilmente politicamente, ma questi erano affari suoi): nella ricerca dello spettacolo, dell’invenzione anche un po’ ruspante ma che a prima vista colpiva l’occhio, nel nazional-popolare, genere però che va maneggiato con cura perché a furia di livellare tutto verso il basso non si riesce più a risalire, e forse questo è stato l’errore di Mosca, e non solo suo. Ma prima di ridursi quasi solo a macchietta, la sua a lungo era stata una tv anche urticante, nel senso di estrema, viva, viscerale, sgradevole a molti quanto gradita ad altri (esattamente come è stato il Berlusconi politico, in fondo). In particolare il suo vero capolavoro L’Appello del martedì (se Mediaset coltivasse la propria memoria metà di quanto fa la Rai, quella trasmissione la rimanderebbe in onda a ciclo continuo, o ne farebbe dvd), dove invitava Moana Pozzi e Pavarotti, Mastella e Giucas Casella, Bartoletti e Lino Toffolo, dove il suo sodale era un Herrera in fase un po’ diroccata e assieme sembravano i vecchietti del Muppet Show. Era una trasmissione non a caso voluta da quel genio della comunicazione che era il direttore di Italia Uno Carlo Freccero, che teorizzava programmi d’impatto, che scuotessero lo spettatore, con gente come Ferrara e Funari. Perché vivo era allora il Paese, che attraversava una crisi politica e forse di identità come quella di adesso, ma aveva ancora voglia di ribellarsi, di muoversi, di mettersi in discussione, di cercare qualcosa, e non solo di gridare vaffanculo come teorizza ora un noto leader politico a cinque stelle. E niente come il calcio, dicevano Mosca e Freccero, sa suscitare passioni. Magari L’appello finiva che non avevi capito una mazza in più di calcio, ma ti eri fatto delle solenni risate e non ti eri annoiato un solo momento a furia di vedere surreali risse (o come disse il linguista Giorgio De Rienzo “canili”, anche se la definizione più giusta sarebbe stata “pollai”). La differenza è che allora si riusciva ancora ad andare a cena tutti assieme, come nel villaggio gallico di Asterix dove dopo essersi scazzottati si faceva una tavolata e si mangiava il cinghiale. Adesso invece ci si continua a guardare in cagnesco, ad accusarsi di falli, furti, imbrogli e truffe, a twittare, facebookare e postare insulti, ognuno da solo nel proprio rancore inesauribile. Ieri sera, seduto poco lontano da noi a teatro, c’era un noto opinionista tv. Indossava una tshirt con foto e scritta su Calciopoli. E non serve dire altro. Solo piangere. Livio Balestri telecommando@hotmail.it http://www.youtube.com/watch?v=0b627OaCqOY&feature=youtu.be