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La condanna di Rocco

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Nereo Rocco è condannato all'agiografia, almeno finché rimarranno in vita i giornalisti che lo hanno conosciuto e frequentato giorno e notte. Una vita lunga, speriamo, visto che i Garanzini e i Mura fanno parte di una generazione di fenomeni irripetibile anche se per ipotesi oggi esistessero (magari esistono, chi lo sa) giovani Garanzini e Mura: semplicemente non ci sarebbero più i giornali dove farli scrivere, mancherebbero i budget per le trasferte necessarie a raccontare al lettore qualcosa in più di quello che si vede da uno schermo televisivo, se vogliamo essere cattivi forse mancherebbe anche un pubblico interessato alla qualità. Ma dicevamo di Rocco, con un pretesto scontato: la mostra 'Nereo Rocco. La leggenda del Paron', inaugurata al Magazzino 26 del Porto vecchio di Trieste. La mostra, curata proprio da Gigi Garanzini che sul personaggio ha scritto un libro imperdibile ('La leggenda del Paron)'), resterà aperta fino al 31 luglio e celebra i cento anni della nascita dell'allenatore triestino (all'anagrafe Nereo Roch, non a caso nato come suddito dell'imperatore Francesco Giuseppe, con cognome italianizzato in era fascista), condannato ad essere il simbolo di un calcio impossibile da riproporre oggi. Non tatticamente, perché a dispetto dei luoghi comuni le marcature esistono ancora (non esiste invece più il libero, è vero, anche se il centrale staccatissimo di certe difese a tre ne richiama la figura) e la divisione fra gregari e campioni è addirittura più netta che negli anni Sessanta. Ma umanamente, per il rapporto fra grandi personaggi del calcio e il mondo circostante. La mostra è stata inaugurata da Franco Baresi, che esordì nel grande calcio proprio con Rocco (direttore tecnico, mentre in panchina c'era Liedholm) e che per molti versi è un personaggio antichissimo anche lui pur avendo vinto e stravinto in un calcio moderno. C'è di tutto, non solo oggetti e filmati legati alla figura del 'Paron' ma anche reperti che evocano un'innocenza perduta del calcio (su tutti la pipa donata da Sandro Pertini a Enzo Bearzot dopo il Mondiale del 1982), non perché 'quel' calcio fosse strutturalmente più onesto (anzi, fra scommesse e doping era forse peggio di quello odierno) ma perché la distanza fra i protagonisti e gli spettatori era inferiore. Pur con tutta la disponibilità di Allegri e Stramaccioni, non riusciamo nemmeno a concepire un'intervista a loro fatta, mettiamo, da Biagio Antonacci, come quella fatta da Celentano a Rocco ed Herrera. Quella poi di Brera (sempre televisiva), durata un giorno fra bottiglie e qualsiasi genere alimentare, sembrerebbe un'invenzione se non fosse che su RaiSport viene periodicamente riproposta. Al di là degli scudetti e delle Coppe Campioni vinte da allenatore con il Milan e dell'ottimo lavoro fatto in tanti altri posti (su tutti Padova), è interessante anche il Rocco calciatore: mezzala della Triestina, e per qualche stagione anche di Napoli e Padova, fu a un passo dal diventare campione del mondo. Nel 1934 infatti Vittorio Pozzo lo convocò in una delle partite di qualificazione per il Mondiale che si sarebbe disputato proprio in Italia (contro la Grecia a San Siro, vittoria 4 a 0), ma poi lo lasciò a casa per la fase finale (va detto che i titolari erano Ferrari e Meazza). Di sicuro è stato un campione del mondo nei rapporti con tutti, sempre molto diretti: quando tutti quelli che hanno lavorato con te, anche quelli con i quali hai litigato, ti rimpiangono, significa che hai lasciato qualcosa. Erano altri tempi, si dice di solito. E forse è proprio vero. Ma Rocco è stato molto di più di una macchietta da frasi celebri in dialetto triestino, come a volte viene dipinto grazie al copia e incolla e per colpa di un aspetto fisico che, diciamo, lo penalizzava. Aveva un'identità forte, non era stereotipato, ha vissuto e insegnato calcio a modo suo. Altro che la bacheca, peraltro più ricca di quella di tanti 'vincenti'. Stefano Olivari, 15 maggio 2012