La canzone non è propriamente così, ma per Benjamin “Benji” De Ceulaer si può fare un’eccezione. Protagonista sempre, spesso nel bene, qualche volta anche nel male. Come sabato nella finale di Coppa di Belgio tra due club da
zeru tituli (non in stagione, ma nello loro storia): Lokeren e Kortrijk. Per De Ceulaer, stella dei primi, rosso diretto dopo pochi minuti. I suoi compagni l’hanno sfangata lo stesso, dopo oltre un’ora di gioco di pura sofferenza. E anche per Benji è arrivato il primo trofeo in carriera.
Quando muoveva i primi passi nel Sint Truiden lo chiamavano il Beckham del Belgio per quel suo mix tra avvenenza fisica e qualità balistiche (piede preferito, ovviamente, il destro) capace di lasciare il segno. Tanto nei cuori delle ragazzine, specialmente quando sfilava come modello per Bikkembergs, quanto nelle porte avversarie. De Ceulaer non è mai diventato Beckham, perché non basta un piede magico per sfondare a certi livelli. Servono decine di altre cose che questo figlio di due ex militari non ha mai posseduto, e forse nemmeno si è mai prodigato al 100% per avere.
Giocatore di categoria, si dice così. A lui è sempre bastato. Primi anni da fuori categoria al Sint Truiden, quindi flop al Feyenoord, lenta risalita della carriera nel Rkc Waalwijk (sia nella Eredivisie olandese che un gradino sotto), per finire nel ruolo di uomo-chiave del Lokeren, club belga di fascia media. Nelle ultime due stagioni è finito due volte nella top 11 del campionato. Quest’anno ha chiuso la regular season con 12 reti, miglior marcatore della squadra (giocando da ala destra nel 4-3-3), e a febbraio è finalmente arrivata - a 28 anni – la prima convocazione in nazionale.
Una carriera normale, quella di De Ceulaer. Di straordinario però ci sono i gol che di tanto in tanto riesce a estrarre dal cilindro. Come quello segnato anni fa in Eerste Divisie con l’Rkc –
rete dell’anno per la B olandese. O come quello realizzato di recente
contro il Fc Brugge, che gli è valsa la nomination nella top 10 FIFA per il Premio Ferenc Puskas, assegnato appunto alla miglior marcatura dell’anno (l’ha vinta Neymar). Con un piede così avrebbe potuto fare molta più strada. Ma come scrive Johan Harstad nel bel romanzo “Che ne è stato di te, Buzz Aldrin?”, “non tutti hanno bisogno del mondo intero”.