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Bocca della verità

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Nel giorno di Natale, all’età di 91 anni compiuti il 18 agosto scorso, se ne è andato, dopo una breve malattia, uno dei più celebri giornalisti e scrittori italiani contemporanei: Giorgio Bocca. E anche noi del Guerin Sportivo abbiamo voluto celebrarlo, a modo nostro, riprendendo un’intervista rilasciataci nel dicembre del 2008 al nostro Andrea De Benedetti che di seguito vi riproponiamo. Sarà anche un luogo comune, ma intervistare Giorgio Bocca è un po’ come intervistare la Storia. Fascista in gioventù, partigiano nell’età della ragione e della passione, cronista attento e severo di sessant’anni di Repubblica, la sua penna ha narrato tutti gli eventi più importanti del dopoguerra senza mai scendere a patti col potere. A 88 anni, ha accettato di sfogliare con il Guerino il suo album di ricordi. Dentro ci abbiamo trovato una miniera di sorprese ancora intatte. Eccole. - Cominciamo dall’inizio o dalla fine? Come vuole lei. - E allora cominciamo dall’inizio. Cosa vuole che le dica? Sono molto legato al calcio, perché poteva essere una delle mie vite. A diciotto anni partii da Cuneo per andare a fare un provino per la Juventus. Fu una strana partita, c’era già Carlo Parola, c’era Gabetto e c’erano altri che non ricordo. Giocavo alla mezz’ala sinistra e feci una buona impressione. L’allenatore in seconda mi propose di trasferirmi da Cuneo a Torino, mi accompagnò in stazione con una mezza promessa di ingaggiarmi, ma quando mi chiamarono era inverno, e d’inverno io volevo sciare, così dissi di no. - Sta dicendo che rifiutò la Signora? In un certo senso. Comunque continuai a giocare fino a quando partii per la guerra. Non in serie A, ovviamente, ma con il Cuneo nell’equivalente della C di allora. Già allora giocare nelle serie minori era un’esperienza abbastanza violenta. Mi ricordo in particolare un centromediano della Sampierdarenese che prima ancora di cominciare la partita prometteva di rompermi le gambe. Una volta dovetti scappare perché quell’energumeno non mi azzoppasse. - Che tempi, quei tempi. I miei miti erano gli stessi di tutti: Meazza, Ferrari, e gli altri campioni del mondo del ‘38. Pozzo organizzava i raduni della nazionale a Cuneo e io portavo le valigie degli azzurri fino al campo sportivo. Finché… - La guerra. Ho smesso solo quando sono stato chiamato alle armi per seguire il corso da allievi ufficiali degli alpini. Poi è cominciata la Resistenza. - È vero che “Giustizia e Libertà” aveva un piano per sequestrare i giocatori del Grande Torino? Non esattamente. Durante la guerra i giocatori del Toro si erano riuniti a Santa Vittoria d’Alba. L’idea era quella di andare a sparare qualche raffica di fucile dove loro si allenavano per far spaventarli un po’ e per ricordargli che lì vicino la gente stava combattendo per la libertà. Ci sembrava politicamente offensivo che quei giovanotti stessero ad allenarsi tranquillamente mentre tutto intorno imperversava la guerra partigiana. Il fatto che si disinteressassero per il conflitto decisivo era molto malvisto tra i partigiani. Alla fine, però, non se ne fece nulla. - Allora non sono solo i calciatori di oggi a non sapere quello che capita intorno a loro. In quel caso era una cosa grave. L’epicentro della guerra partigiana era proprio il Piemonte, e piemontesi erano anche la maggior parte dei resistenti. Pensare che mentre noi combattevamo loro si allenavano faceva rabbia. - Ci demolisce così il Grande Torino? Al contrario. Io ero juventino, ma dopo la guerra ebbi una sbandata per il Toro, che andavo a vedere quasi sempre. Avevo cominciato a fare il giornalista alla Gazzetta del Popolo e lì vicino abitavano Ossola, Gabetto e altri, che facevano capo a un certo parrucchiere tifosissimo del Toro. Con loro c’era una bella amicizia. - Gliela raccontò mai la storia di quando voleva sparargli? No (sorride). - Ecco perché poi siete rimasti amici. Li conoscevo tutti di persona, il rapporto con la squadra era molto diretto. Soprattutto c’era una forte amicizia con l’allenatore ungherese (Ernest Erbstein, n.d.r.), un rapporto che coinvolgeva anche le famiglie. - Poi arrivò Superga. Una tragedia, anche dal punto di vista personale. Dopo la scomparsa del Grande Torino riscopersi la mia juventinità. Ero diventato della Juve perché quando ero piccolo, a Cuneo, c’era una squadra chiamata Altitalia che aveva la divisa identica a quella della Juve. Poi venivo da una famiglia borghese, e i borghesi notoriamente erano tutti juventini. - A quale Juve è rimasto più affezionato? Ala Juve di quando ero ragazzino, quella di Combi, Rosetta, Caligaris. - E quella di Sivori, Charles e Boniperti? Anche, ma la passione primigenia era quella infantile. Una volta si riusciva anche ad avere dei rapporti personali coi giocatori. Combi aveva un bar all’angolo di via Roma: erano tutte persone che vivevano in mezzo alla gente. - C’è stato un momento in cui ha pensato che il calcio non era più quello di una volta? Adesso. Da qualche anno devo confessare che mi stufo a vedere le partite. L’hanno avuta vinta i tipi alla Brera che sostenevano che il calcio fosse una questione matematica e che il miglior risultato possibile fosse uno 0-0. L’emblema è Mourinho. Mi chiedo come gli interisti facciano a divertirsi. Se non fosse per Ibrahimovic, ci sarebbe da morire dalla noia. Mi stupisco che nel mondo del calcio nessuno si stia accorgendo di questo. - È il calcio moderno, dicono. Una cosa che mi fa impressione è che mentre lo spettacolo decade si arriva a livelli eccezionali di efficienza fisica. I calciatori sono atleti veramente spaventosi. L’Inter impressiona dal punto di vista della potenza muscolare. I giocatori di oggi sono gladiatori, fanno un mestiere molto più faticoso di una volta. Poi è naturale che alla fine si rompano tutti quanti. Ai miei tempi c’erano dei grandi viveur, come Cesarini. Certo, anche oggi ci sono Adriano e Ronaldinho che fanno bisboccia fino al mattino, ma sono l’eccezione, non la regola. - Si sa come sono fatti i brasiliani. Bravo. Mi faccia parlare degli stranieri. - Prego. Possibile che una squadra come l’Inter abbia un solo italiano, per di più un buzzurro come Materazzi? Il Grande Torino era un quadro dell’Italia della ricostruzione: tutti italiani e tutti molto simpatici e molto popolari. - Ammetterà che l’Inter è almeno un buon esempio di integrazione. Balle. Siamo capaci tutti a integrare un campione. Il problema è farlo con disgraziati e miserabili. - Se era così appassionato di sci e di calcio, come mai non ha mai scritto di sport? A un certo punto, in realtà, sono stato sul punto di passare al giornalismo sportivo. C’erano dei dissapori col direttore della Gazzetta del Popolo, allora andai da Carlin per chiedere se mi prendeva a Tuttosport. Lui rifiutò come sanno rifiutare solo i piemontesi: mi disse che ero una grande firma, che a Tuttosport ero sprecato, che per la mia carriera sarebbe stato meglio che fossi rimasto alla Gazzetta. La verità è che non aveva nessuna voglia di prendersi questa grana. - Se la prenda lei e ci parli dei suoi colleghi che scrivono di sport. Il più grande è stato Brera, senza dubbio, anche se la sua non era cronaca, ma pura finzione narrativa, difatti i suoi articoli erano belli e interessanti persino quando scriveva di caccia o pesca. Oggi i suoi epigoni mi sembrano abbastanza noiosini. - Pure loro? Quando cominciano le litanie sul 4-4-2 o sul 4-3-3 smetto di leggere o cambio canale. Ridurre il calcio a formule algebriche non interessa a nessuno. La bellezza del calcio sta tutta dentro l’imprevedibilità della palla e l’abilità degli uomini nel controllarla. - Più racconto e meno commento? Esatto. Il giornalismo sportivo dovrebbe smetterla con certe interviste inutili in cui i calciatori ripetono sempre le stesse 10-12 frasi. L’unico che si alza un po’ sopra la media con la sua intelligenza è Del Piero, gli altri sono da mettersi le mani nei capelli. - Scommetto che anche gli ex calciatori in tivù non la entusiasmano. Quei tre che commentano la Champions su Sky – Vialli, Rossi e l’altro – sono di una banalità incredibile. E pensare che il calcio si presta a essere raccontato come un romanzo, come una cosa viva. - Con un canale che parla di calcio 24 ore su 24 è difficile non ripetersi. E allora che facciano vedere le partite. Se c’è una cosa buona di Sky è che ha allargato il bacino degli spettatori e li ha resi più competenti. Prima allo stadio ci andavano in pochi, adesso in tivù ci sono milioni e milioni di persone che lo guardano. - Torniamo ai giornalisti. C’è qualcuno che le piace tra i contemporanei? Gianni Mura, anche se è fin troppo complicato, oserei dire troppo “sardo”, nel senso di aggrovigliato. - Come ha vissuto Calciopoli da tifoso bianconero? Che Moggi fosse un trafficone si capiva già da prima. Il fatto che la Juventus comprasse solo giocatori che appartenevano alla sua “filiera” era abbastanza inquietante. Il problema è che dove ci sono i soldi si creano sempre delle sacche di corruzione. Nel calcio è successo così. Certo che come juventino ho vissuto male il fatto che la squadra sia stata retrocessa, mi è sembrata un’ingiustizia. - Cioè doveva pagare solo Moggi? No, forse era giusto così, ma chissà quanta altra melma c’è sepolta lì sotto che nessuno ha avuto il coraggio di andare a scavare. - Calciopoli è stato un fenomeno a sé o un tumore civile che si è esteso anche nel calcio? Il parallelismo tra la corruzione politica e quella calcistica è evidente. Del resto non c’è da stupirsi in una civiltà che ha come unico valore il guadagno. - Non so perché, ma ho l’impressione che stia parlando di Berlusconi. Berlusconi ha fatto al calcio la stessa cosa che ha fatto con l’Italia: lo ha corrotto. Anzi, lo ha potenziato e arricchito corrompendolo. La cosa più grave è che ha fatto diventare berlusconiani anche i giocatori. - Cosa salverebbe del calcio di oggi. Il fatto che malgrado tutto è ancora il gioco più bello del mondo. È uno sport che può essere giocato in modo lento e veloce, tecnico e fisico, che ha parti di racconto e parti di riposo. C’è dentro tutto.