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La metamorfosi di Fàbregas

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Se il numero 6 può simboleggiare la storia del Milan, o il 10 quella del Napoli, l’evoluzione del Barcelona negli ultimi 20 anni può invece venir riassunta dal numero 4. Prima dei trequartisti come Ronaldinho e Messi, o delle magie di Romario, a definire appieno l’identità tecnico-tattica del club fu la decisione di Johan Cruijff di “proteggere” la difesa con un giocatore senza particolari virtù atletiche, incapace di correre dietro agli avversari ma capace come pochi di far correre il pallone: il lancio in prima squadra di Pep Guardiola fu la sua intuizione più ardita e feconda. Dal 1990 ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, e anche l’uomo davanti alla difesa blaugrana ha cambiato le caratteristiche. Dal regista puro si è passati a un giocatore più di copertura (Márquez, Edmilson, Touré, in parte  Busquets e Mascherano), ma non è sparita la figura del direttore d’orchestra. Anche se parte da una posizione più avanzata, gran parte del gioco passa dai piedi di Xavi. Suo erede designato pareva essere Fàbregas. L’attesa ossessiva (e stucchevole) di un suo ritorno in Catalogna mirava anche a perpetuare questa specificità culè, e già in nazionale, in occasione di Euro 2008, le similitudini fra i due fecero parlare qualcuno di dualismo o scarsa compatibilità: a torto, ma non c’è dubbio che all’epoca entrambi calcassero zone del campo analoghe e reclamassero una quota preponderante del possesso-palla. Ora il problema è risolto, per un motivo molto semplice: Fàbregas non è più Fàbregas. Sembra più un Litmanen catalano, o la nuova edizione di quel Bakero del Dream Team di Cruijff. In ogni caso è difficile vedere l’erede di Guardiola e Xavi in un giocatore che passa il 90% delle gare oltre la linea della palla, e che è sempre più difficile vederlo influire sulla manovra. Centravanti-ombra, con un tempismo perfetto negli inserimenti e una qualità fuori discussione, ma sempre più ghettizzato in una mattonella di campo che delimita eccessivamente un talento che a inizio carriera pareva sconfinato, per la visione di gioco e la quantità di campo in cui incideva. Non è chiaro se si tratti di un’evoluzione intrinseca del giocatore (Wenger fu il primo ad avanzarne stabilmente la posizione) o se Guardiola insista nel chiedergli un’interpretazione tanto diversa da Xavi e Thiago (magari per limitare la concorrenza con questi). La sensazione però è che stia andando perso qualcosa di prezioso, per quanto un giocatore in più in grado di attaccare la profondità faccia sempre comodo a questo Barça dichiaratamente senza centravanti. (a cura di Valentino Tola)