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I passi avanti dell’Arabia Saudita

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Nessun tatuaggio, nessuna esultanza, possibilmente anche niente calcio. L'Arabia Saudita del 2011 non è una realtà possibile da liquidare in poche parole, ma di sicuro manda segnali preoccupanti sia per il pallone che per l'umanità intera. Poco più di una nota di colore, quelle 'brevi' che piacciono tanto ai giornalisti, merita il mufti che ha emesso una fatwa con cui ha vietato ai musulmani di giocare a calcio in quanto si tratta di uno sport inventato dagli ebrei, dai cristiani e in generale dagli infedeli. In particolare il simpatico Abdullah al-Najdi ha vietato ai giovani musulmani di giocare a calcio a meno che non vengano cambiate alcune regole, tipo quella sulla squadre composte da 11 giocatori. Meglio 10 o 12, per differenziarsi dal resto del mondo. Fuori dalle note di colore invece l'ultima impresa della polizia religiosa dell'Arabia Saudita, che ha dichiarato guerra ai giocatori stranieri che amano tatuarsi il corpo. La 'Commissione per la promozione della virtù e la repressione del vizio' ha inviato una lettera all'Alta commissione per la Gioventù chiedendo di avvertire tutti i calciatori stranieri che giocano nel campionato saudita di coprire tutti i loro tatuaggi prima di scendere in campo, pena la prigione. Alla base del provvedimento c'è l'episodio riguardante il giocatore colombiano dell'al-Nasr, Juan Pablo Pino. Arrestato dalla polizia religiosa, mentre si trovava in un centro commerciale con la sua moglie incinta, per aver mostrato in pubblico i suoi numerosi tatuaggi sulle mani e le spalle. Cosa dire? Prima di tutto che è un miracolo che il calcio sia rimasto fuori da strumentalizzazioni religiose, nonostante sia l'unica cosa che riesca a muovere le masse di tutto il mondo: dei paesi ricchi e di quelli poveri, di quelli civili e di quelli arretrati, di quelli religiosi e di quelli laici. In secondo luogo che il vituperato Blatter, che da sempre ce l'ha con le manifestazioni di fede religiosa in uno stadio (aveva anche richiamato più volte i brasiliani), anche in versione light, aveva visto lungo: mantenere 'laico' lo sport dovrebbe essere fra i primi doveri di ogni dirigente. Poi secondo qualcuno il laicismo è un prodotto della cultura occidentale, ma non inerpichiamoci in questi discorsi. In terzo luogo i grandi club europei che stanno venendo comprati da finanziarie di stato, con gli stati che sono quasi sempre musulmani, non sono aziende culturalmente 'neutre' come potrebbero esserlo una fabbrica di scarpe o un pastificio, ma enormi veicoli di comunicazione. Purtroppo ce ne accorgeremo troppo tardi. Stefano Olivari