La crisi del movimento del
basket italiano è chiarissima: l'altra sera mi aspettavo caroselli di auto nelle strade malgrado la nazionale avesse vinto gli Europei, e invece nessuno. Così come è stato sorprendente lo scarso entusiasmo dopo la strepitosa vittoria della nazionale di calcio a suon di gol e gioco dei giorni scorsi.
Sono rimbambito? No (o forse sì, ma questo è un altro discorso). Semplicemente ho letto i giornali nell’ultima settimana. I giornali che lanciavano la spedizione dell’italbasket in Lettonia con roboanti articoli sul metodo
Pianigiani, sui tre geni della Nba che avrebbero infilato canestri canestri canestri, il Gallo, il Mago e il Bello (complimenti anche ai soprannomi, neanche su Topolino), su uno staff che così bello affiatato pronto intelligente e competente mai, sulla vittoria finale che era pressoché certa, su una federazione capace di lavorare al meglio su una nazionale finalmente tornata agli antichi splendori. Un giulebbe grottesco per i toni uniformemente spalmato su tutte le testate, senza uno che si degnasse quantomeno di scrivere in una parentesi “ah già, ci sarebbe il dettagliuccio che questa squadra le qualificazioni non le aveva passate e agli
Europei ci è arrivata solo con un grottesco allargamento a tavolino del numero dei partecipanti”, senza un’analisi tecnica e tattica degna di questo nome, e se c’è stata ce la siamo persa. Zero. I risultati si sono visti, quattro partite e tanti cari saluti.
E la nazionale di calcio? Contro i “simpatici” dilettanti - i dilettanti sono sempre simpatici, perché c’è l’idea che un idraulico o un maestro elementare siano particolarmente disposti a offrire la giugulare e a lasciare la porta libera ai reputati campioni, e in effetti spesso capita, vedi
San Marino - delle Far Oer la goleada era annunciata in articoli che grondavano retorica e immagini liriche per la natura selvaggia delle isole sparse lassù. Splendevano ancora negli occhi le sgroppate e le triangolazioni esibite contro la Spagna campione del mondo. Non uno che notasse che magari, iniziate le preparazioni delle squadre di club, anche gli azzurri potessero avere le gambe pesanti, e che si potesse avere difficoltà a trovare spazi contro una squadra ovviamente chiusissima come le Far Oer (a proposito, avete capito come si scrivono e come si pronunciano? Ne abbiamo lette e sentite di tutte)Morale: un solo gol, perdipiù in fuorigioco, due legni subìti, una fatica mostruosa anche fisica oltre che calcistica.
Questi in realtà sono solo gli ultimi due esempi di quello che mi sembra uno dei problemi maggiori del giornalismo sportivo attuale: la contiguità, la corrività, la mancanza di analisi. In una parola, il tifo. Soprattutto sulle squadre nazionali, dove non hai timore di esporti a critiche perché lodi l’Inter, o il Milan, o la Juventus: la nazionale è la squadra di tutti, e così sotto con le sviolinate, i pezzi di colore, i ritratti. Stesso discorso dei giornali locali (e dei dorsi locali dei grandi giornali), che mai si sognerebbero di criticare la squadra del posto. Analisi tecniche, tracce. O al limite, ex post, quelle più facili.
Motivi, tanti. Su tutti la trasformazione dei mass media, tutti, e non solo nel settore sport, in fogli dediti più al fiancheggiamento che alla critica, genere che è sparito. Tutto quello che accade è bello, ogni disco nuovo è ottimo, ogni campione un grande campione. Una laudatio frutto di pigrizia mentale, uno zinzino di cialtroneria, voglia di lisciare il pelo al pubblico dicendogli ciò che vuole sentirsi dire (siamo in epoca di crisi di identità, perché criticare quello in cui la gente crede?) che serve anche a mascherare la miseria dei tempi attuali: non tutto è misero ovviamente, ma chi ha qualche anno è generalmente abbastanza sicuro che tempo fa il calcio era più divertente, e così la musica e anche i film. Come recita il più grande cantautore italiano di sempre,
Enzo Jannacci, “se c’hai in mano solo mosche prova a dargli anche del tu”. Teniamo poi conto che una volta lo sport visto in tv era magari poco, ma tutto rigorosamente gratuito, canone Rai a parte. Adesso è una marea, ma in gran percentuale a pagamento. E ovviamente chi lo vende deve appunto venderlo, cioè fartelo sembrare la cosa più bella di sempre, per indurti a spendere.
Ma in generale, la critica è sparita anche dalla società, e non ci imbarchiamo in discorsi politici se non per dire che fino agli anni Settanta-Ottanta critica e analisi erano generi praticati a livello di massa, le cose difficili, o da capire, o degne di un ragionamento, erano considerate positivamente, la voglia di capire c’era. Poi sono arrivati
i semplificatori, quelli che usavano poche parole d’ordine semplici, che invitavano a non pensare e non ragionare poi troppo: basta accomodarsi in poltrona e godersi lo spettacolo. E semplificando semplificando siamo arrivati alla situazione attuale, quella in cui, per dirla con un notissimo politico, «la media del pubblico italiano è intelligente come un ragazzo di seconda media che non sta neppure seduto nei primi banchi». E a pubblico di merda (pardon) corrispondono mass media di merda (mass merda?). Con le dovute eccezioni, naturalmente: il nostro è un discorso generale, fatto tagliando il salame a fette spesse. Ovviamente ci sono ancora isole piccole e grandi di resistenza. E siamo lieti di scrivere su una di queste.
Livio Balestri
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