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Gli ultimi colpi di Beretta

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Il presidente da sempre uscente della Lega Calcio, Maurizio Beretta, sembra aver costruito la carriera sulla sua insuperabile arte dell'eufemismo, del peculiare "troncare e sopire" in cui spesso supera il maestro, il Conte zio manzoniano. Con la differenza che il Conte zio era un uomo potente, mentre il rappresentante delle società calcistiche ama farsi scudo della sua impotenza. "Il faccia a faccia con Beretta è zoppo perché come lui stesso ha detto non ha potere di decidere", lamenta sconsolato il capo del sindacato dei calciatori, Damiano Tommasi. (...) Per commentare la rogna dello sciopero della serie A, di cui gli danno la colpa, Beretta è riuscito a dire: "Io sono sempre stato non pessimista", quasi che "ottimista" potesse suonare troppo osé. I cultori della lingua berettiana ricordano una sua frase indimenticabile, talmente perfettamente sferica che nessuno saprebbe accostarla a un argomento specifico: "Le vicende di ieri e altre che potrebbero prospettarsi davanti devono richiamarci tutti al massimo di responsabilità per l'attuazione e il rispetto delle norme definite nelle sedi competenti". Beretta è così. In tutte le sue successive reincarnazioni ha saputo rassicurare danti causa ed eventuali controparti sulla sua onesta aderenza ai pilastri dell'ovvio. Chi definisce le norme? Le sedi competenti. E noi che dobbiamo fare? Rispettarle e attuarle. Qui Trilussa avrebbe aggiunto: "E la reggina? Allatta. E er principino? Succhia". Adesso si trova per la prima volta a fronteggiare gli insulti. Il presidente della Federazione calcio, Giancarlo Abete, ha detto ieri: "L'accordo era stato fatto, bisogna essere onesti intellettualmente, era stato raggiunto l'8 dicembre e la Lega non ha rispettato gli impegni". Il capo del Coni, Gianni Petrucci, se la prende con il doppio lavoro: "Non ricordo un presidente di Lega che disertasse la riunione degli arbitri alla vigilia del campionato", ha detto ricordando che l'incarico di capo della comunicazione di Unicredit toglie forse a Beretta "la serenità necessaria per continuare a operare nel calcio". Più diretto il presidente del Cagliari Massimo Cellino: "Beretta si è dimostrato un incapace". Il presidente della Lega non si scompone: "Il mio compito come vertice della Lega di A è quello di attuarne le volontà". Poi chiarisce: "Il mio compito è quasi notarile". La sua carriera è punteggiata da momenti alti dell'arte di svicolare. Ha iniziato come giornalista, prima all'agenzia Asca, poi al Tg1, dove ha salito tutti i gradini, prima capo della redazione economica, infine vicedirettore. Democristiano, di quelli classici, replicò un giorno a chi così lo apostrofava: "Sono cattolico e di tradizione centrista. Non mi disturba, ma mi pare ingeneroso". Inutile dire che nel Dna di Beretta c'è la trasversalità dei rapporti. È la maggioranza di centrosinistra, nel 2000, attraverso il suo direttore generale della Rai Pierluigi Celli, a proiettarlo verso il grande salto, la direzione di Raiuno. Nel marzo del 2001 si distingue per una mossa decisionista. Dopo che Enzo Biagi ha registrato un'intervista a Indro Montanelli per la sua trasmissione "Il Fatto", ordina di tagliare la frase in cui il grande giornalista toscano, dopo aver profetizzato che Silvio Berlusconi vincerà le elezioni e "governerà con molta corruzione", spiega perché alle imminenti elezioni politiche voterà per il centro-sinistra: "Questa destra mi fa paura". Censura? Macché. "Io non parlerei di censura. Ho segnalato un allarme, ho svolto una funzione di servizio". Giorni dopo toccherà ad Adriano Celentano sperimentare i toni felpati del direttore di Raiuno, che di fronte al nome scelto per la nuova trasmissione del cantante ("125 milioni di cazzate"), spara: "Un titolo che la rete giudica non condivisibile". Dopo le elezioni del 2001, quando si abbatte sulla Rai il pugno di ferro dei berlusconi del "non faremo prigionieri", Beretta, che ama andare d'accordo con tutti ma non a costo di rapidi voltafaccia, cambia aria. Eccolo alla Fiat, dove annaspa di fronte all'esplosione della crisi, che richiede quella comunicazione grintosa che Sergio Marchionne deciderà di far da solo. Nel 2004 segue il presidente Luca di Montezemolo nell'avventura confindustriale. Come direttore generale della Confindustria si spende generosamente in appelli alla concordia. Nel luglio del 2004 sottolinea "un'importante apertura di dialogo" con i sindacati, cinque giorni prima che il leader della Cgil faccia saltare il tavolo delle riforma contrattuale con una rottura durata sette anni. Rassicura il Paese sull'intesa fissata tra governo e Confindustria sulle priorità da affrontare: "Concorrenza, liberalizzazioni, Mezzogiorno, semplificazione, infrastrutture, innovazione e ricerca". Auspica il dialogo tra maggioranza e opposizione sulle riforme. Fino al giorno in cui alla Confindustria Emma Marcegaglia che prende di mira tutto l'organigramma del suo predecessore e lo spinge (due anni fa) tra le braccia della Lega calcio. Dove fin dall'inizio Beretta chiarisce di essere di passaggio, e infatti apre subito la trattativa per lo sbarco ai piani alti di Unicredit, da cui oggi fa sapere di essere, come presidente della Lega calcio, dimissionario "da qualche mese". E che se ne andrà "nel momento in cui all'interno della Lega tornerà un po' di sereno". Il che, come sempre, vuol dire e non vuol dire. Fonte: articolo di Giorgio Meletti pubblicato sul Fatto Quotidiano