Demetrio Albertini era un grande costruttore di gioco, ma anche un buon filtro davanti alla difesa dove da allievo aveva addirittura superato il maestro Ancelotti. Anche adesso, da vicepresidente federale, sta facendo falli tattici per innervosire gli avversari. Perchè questo dibattito sul ritorno del secondo extracomunitario oltre ai buoni sapori di una volta (il secondo straniero, senza distinzioni fra comunitari ed extracomunitari, tornò nel calcio italiano nell'anno di grazia 1982) fa tornare in mente che viviamo in un continente in cui un pezzo di carta non si nega a nessuno. Un continente dove, dopo i fasti di Passaportopoli (solo per citare le principali squadre con dirigenti o giocatori squalificati: Inter, Milan, Roma, Lazio...) adesso vede l'Italia abbastanza seria e mezza Europa invece ridotta a documentificio. Tutto questo per dire che la battaglia di Albertini sembra davvero di retroguardia, un po' come buttare fuori l'acqua dal Titanic usando un bicchiere. E forse lo è davvero, almeno stando ai media che ascoltano lezioni di buona gestione e fiscalità da chi si è distinto per pagamenti in nero e bilanci taroccati. Però il compito istituzionale delle federazione non è fare di conto, perché è chiaro che dieci quindicenni disperati della Sierra Leone costano meno di un quindicenne di Bergamo come formazione e come contratto in senso stretto, ma lavorare per il futuro del calcio italiano. Bisogna ricordarlo in questo centocinquantenario di celebrazioni spesso retoriche o cialtrone, la vita è baglionianamente adesso. La materia del contendere, oltre al contratto collettivo scaduto da un anno, non è tanto che la Juventus o la Roma possano ingaggiare tutti i professionisti che vogliano nel mondo, ma che i vivai che bene o male sono costrette ad avere siano popolati prevalentemente di ragazzi italiani. Non perché siano migliori o più meritevoli di tutela di quelli ghanesi o argentini, ma solo perchè si sta parlando di calcio italiano. E non è, ripetiamo, questione di pezzi di carta. Continuiamo a trovare geniale la risposta di Mario Balotelli a chi gli chiedeva se si sentisse italiano: ''Io non è che mi sento italiano, io sono italiano. E' come chiedere a un cinese perché si sente cinese''.
Stefano Olivari
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