Avrete già capito, insomma, che Cesare Rubini conviene tenerselo buono. Non fosse altro che per il rispetto che merita chi nella pallanuoto ha un oro e un bronzo alle Olimpiadi, altrettanto agli Europei, ottantaquattro partite in Nazionale (metà da capitano) e sei titoli italiani più nel basket quindici titoli italiani (cinque da giocatore, dieci da allenatore) con una squadra che prima si chiamava Borletti e poi Simmenthal ma è sempre l’Olimpia Milano, più una Coppa Campioni e due delle Coppe, ed è il primo italiano inserito nella Hall of Fame, «una cosa che mi inorgoglisce, ci mancherebbe altro. Ora è arrivato Meneghin, giustissimo, però aspetto pure Gamba». Se poi vogliamo aggiungerci anche le passioni private, ecco in rigoroso ordine alfabetico atletica leggera, calcio, hockey a rotelle, lancio del peso, nuoto, sci, tennis praticati in gioventù, poi parallelamente all’attività ufficiale di giocatore e allenatore, e anche dopo, fino al momento di venire a patti con gli anni. «La cosa che mi scoccia di più è di dover rinunciare a giocare a tennis col mio amico Ottavio Missoni, e a sciare, quando vado a Madonna di Campiglio. Nuoto ancora, quello sì, quando sto in vacanza in Croazia. A Brioni vado, proprio dove durante la guerra faccio l’allievo ufficiale nei sommergibilisti. Un paradiso, si dimenticano di noi per mesi mentre il mondo si infiamma e noi ci godiamo quella natura meravigliosa».
Meravigliosa come quella gioventù spensierata a Trieste, «ai tempi una città fatta per i ragazzi, piena di impianti sportivi. Una gioventù di scherzi e risate, in una banda di 5 amici che chiamiamo Crefergalaru, l’acronimo dei nostri cognomi (Cressa, Ferraris, Gasti, Lamendola oltre a me), dove cresco con lo spirito di gruppo e con la voglia di ridere e godermi la vita appena possibile. Un po’ meno con l’amore per lo studio: la maturità allo Scientifico la supero solo perché gli altri quattro del Crefergalaru mi sparano in aula con una cerbottana i compiti fatti e io devo solo copiare». E poi c’è lo sport, «tutti: divertendomi sempre a giocare a ogni cosa, perché dovrei scegliere? Infatti io non scelgo, sono scelto, dalla Ginnastica Triestina».
Ginnastica che poi vuol dire tutto. E infatti è sia pallanuoto che basket. Rubini fa entrambi ad altissimo livello: ancora adesso è l’unico italiano a essere convocato in due Nazionali diverse, nel 1948. «Ma non è mica difficile, sa, anzi è quasi intuitivo: allora a basket si gioca da settembre a maggio e a pallanuoto da maggio a settembre. L’incastro è perfetto. E quando devo decidere con che specialità andare alle Olimpiadi di Londra del ‘48, scelgo la pallanuoto, che mi diverte di più, anche se non ho il posto da titolare garantito, a differenza che nella pallacanestro. Risultato, il basket va malissimo, noi si vince l’oro con me titolare fin dalla prima partita. E da Londra torniamo anche ricchi, nascondendo tremila metri di seta gommata, tremila fazzoletti di seta presi a Como e bottiglie di liquore Strega (quarantotto cartoni) nelle valigie e poi rivendendo il tutto là. Il senso degli affari non mi è mai mancato, e c’entra anche nella mia scelta finale: continuerei a lungo nella pallanuoto, ma si guadagna poco, e così pian piano mi dedico esclusivamente al basket».
Ma adesso siamo già troppo in là, c’è ancora da parlare di un dopoguerra ancor meno noioso del prima, a Trieste. «E a Milano, non dimentichiamocelo. Perché la Triestina diventa una società in trasferta permanente a Milano. Il clima lo si può immaginare, tra Tito e il nazionalismo italiano di Vola colomba». E in questo clima Trieste non può, deve partecipare ai campionati sportivi. Nel calcio la Triestina arrivata ultimissima nel campionato del 1946-47 viene riammessa alla serie A «per le sue benemerenze sportive» (che in realtà acquista solo l’anno dopo arrivando seconda dietro il Grande Torino, con Rocco in panchina). Nel basket si tira a campare allo stesso modo, «ma le difficoltà sono oggettive: ricordo ancora una trasferta fino a Roma su un camion carico di sarde che buttiamo via per strada mano a mano che iniziano a puzzare. E al ritorno, tanto per fare rendere anche quel viaggio, i barili diventano pieni di olive. Finché non viene l’idea di portare la Triestina a Milano: è di Adolfo Bogoncelli, senza dubbio la persona più importante della mia vita, che poi trasforma la Triestina in Olimpia e la fa diventare la società più importante d’Italia e d’Europa». Suo papà ha fatto i soldi trasformando la farina di carrube in cioccolata, lui vuole tenere alto il nome della città ma l’unica soluzione praticabile è questa, che ha anche l’appoggio degli azionisti. Nel senso di Ferruccio Parri. «Cinquemila lire a testa al mese, poi diventate diecimila, per le spese: vitto alloggio e viaggi pagati, compreso il ritorno a Trieste una volta alla settimana sul camion che nella notte trasporta le copie del “Corriere della Sera” ancora umide di tipografia. E malgrado questo mia mamma Maria ogni volta che riparto mi dà dietro lo zucchero perché “quel che xe a Milan nol xe bon come el nostro”, e mi fa lasciare lì le mie magliette sudate e sporche per indossarle lei, “così me sento più vizin al mio putel”. E inizia un trentennio davvero epico».
Più che epico, se non fosse ormai un aggettivo a rischio verrebbe da dire intenso. Per dieci anni Rubini fa il giocatore-allenatore di basket a Milano e il giocatore di pallanuoto a Napoli e Camogli, fino a metà degli anni ’50 quando molla la piscina per fare solo l’allenatore dell’Olimpia. Il risultato è una sequenza di vittorie quasi imbarazzante a dirsi, «in cui di merito alla fine io ne ho poco e quasi tutto Bogoncelli. Uno capace di rattoppare lui con dei fogli di compensato i finestroni rotti della palestra Forza e Coraggio dove ci alleniamo ma anche maestro, mio personale e di tutti noi, nella vita. Anche nello stare a tavola, anche nel vestire. Ma soprattutto nell’organizzazione: i ragazzi li prendiamo di preferenza studenti, dotati quindi di cervello oltre che di entusiasmo, li facciamo diplomare all’Isef, li facciamo sposare, e come dono di nozze Bogoncelli regala mobili e corredi per la casa. Per inciso mi sposo anch’io, nel 1959, con Luisella: in chiesa perché lei ci tiene molto, alla confessione il prete mi tartassa di domande sugli atti impuri quanti dove eccetera, e io la vita me la sono sempre goduta, devo pure fare la comunione. Viaggio di nozze a Trieste: mica per sentimento, è che il giorno dopo la Simmenthal gioca lì». Pure questa è organizzazione, a suo modo. «È anche per cose così che vinciamo tutto per anni. I soldi, certo, ma soprattutto organizzazione. E bravura. Allora basta dire che la Simmenthal ti richieda perché tu accetti, e non badi alla cifra. Diventiamo un mito tale che alla fine la Simmenthal deve mollare la sponsorizzazione perché tutti credono che sia la carne in scatola che si chiama come la squadra di basket e non viceversa». È per questo mito che i giocatori si immolano senza fare neanche un plissè: Riminucci che gioca con un’apofisi rotta, Sardagna che corre con una caviglia tenuta insieme alla bell’e meglio dai cerotti, Kenney che prima di una partita decisiva ingolla l’intero flacone di pillole medicinali anziché solo le dieci prescrittegli dal medico, Gamba che sul parquet lascia due ginocchia. Una squadra di duri. Cioè di duri banchi: «”Duri banchi” è il mio grido quando c’è da riprendere il gioco dopo una pausa. Nei secoli passati è il grido sulle galee veneziane quando i rematori devono accelerare il ritmo, i loro banchi si fanno duri, bisogna massacrarsi. Insomma, un richiamo a sputare sangue in campo».
E quando non capita più, giunge l’ora di ritirarsi dalla panca, nel 1976, a soli cinquantatré anni. «A un certo punto vedo i giocatori che perdono e ridono. Se non c’è più la tensione vuol dire che è ora di mollare. Anche perché io invece di tensione sul parquet ne accumulo parecchia: per dire del clima dei palasport dell’epoca, i tifosi di Pesaro quando ci affrontiamo a novembre arrivano con le corone di crisantemi, in mio onore, visto che sono nato il 2 del mese. E allora basta. Vede quel quadro lì? È di un mio grande amico, il pittore Roberto Crippa, a sua volta amico di Frank Sinatra che ha passato una vita a dire che si sarebbe ritirato a 53 anni. Un’idea così bella che la facciamo nostra, col progetto di prendere la barca e partire per un giro del Mediterraneo. Solo che pochi giorni dopo il suo cinquantatreesimo compleanno, Crippa precipita con l’aereo e muore. Vabbè, io mi ritiro lo stesso».
A quel punto inizia la carriera federale che è il classico per i più grandi degli sport: responsabile del settore squadre Nazionali, con il suo pupillo Sandro Gamba allenatore (un oro, un argento e un bronzo europei, un argento olimpico), consigliere, dirigente e compagnia bella. Anche a livello internazionale: ancora adesso è il presidente onorario della Wabc, l’associazione mondiale dei coach di pallacanestro. «In più, ritiratomi dalla panchina, continuo a dedicarmi al negozio di articoli sportivi che ho aperto nel frattempo, mi occupo di sponsorizzazioni in una società assieme a mio nipote, faccio l’uomo immagine per ditte come Asics, Nike, Converse. Tra una cosa e l’altra, col mio passato si aprono molte porte». Anche quella della Hall of Fame, «una delle maggiori emozioni della mia vita. Non ci credo molto, quando mi candido, perché per gli americani l’Europa della pallacanestro è un mezzo mistero. Ma al secondo colpo ce la faccio. A Springfield è un rituale splendido, accuratissimo, tre giorni di cerimonie e la cena finale dove sono l’unico in smoking che metto perché so che nelle serate di gala gli americani lo indossano sempre. E il saluto ufficiale via video del presidente Clinton», complice il senatore democratico Bill Bradley, uno che da giocatore della Simmenthal fa la fortuna di Rubini e di cui Rubini fa la fortuna. Funziona sempre, la forza del gruppo.
di Luigi Bolognini (da "Gli eroi son tutti giovani e belli", ed. Limina, 2003)