Roma-Lecce, Paolo Baldieri racconta la sua vita in giallorosso

Roma-Lecce, Paolo Baldieri racconta la sua vita in giallorosso

Dopo l’esordio in Serie A nella Capitale, l’attaccante si affermò con la maglia del Pisa. Ritornò alle sue origini ma fece fatica con Eriksson. Nei quattro anni in Salento trovò l’ambiente ideale per esprimersi

Paolo Valenti/Edipress

20.01.2022 ( Aggiornata il 20.01.2022 12:00 )

  • Link copiato

A metà degli anni Ottanta era l’ennesimo giocatore coi fiocchi prodotto dal vivaio della Roma; nei primi anni Novanta fu protagonista giocando nel Lecce: Paolo Baldieri si racconta in questa intervista nella quale rivela la sua storia di emozioni in giallorosso.

Paolo, cosa significò per un romano come te affacciarsi al professionismo con la maglia della Roma?
"Il top, perché è qualcosa che hai sempre sognato arrivare a giocare in serie A con la tua squadra del cuore nello stadio dove magari da ragazzino andavi a vedere le partite. L’emozione è grande anche se capisci che è solo l’inizio. Ineguagliabile".

Nel 1984 diventasti campione d’Italia primavera. Vuoi parlarci di quella squadra?
"Ci allenava Romeo Benetti e a centrocampo giocavano Giannini, Di Mauro e Desideri. In attacco il primo anno c’eravamo io, Tovalieri e Baglieri mentre in porta avevamo i vari Gregori, Onorati, Savorani... L’anno successivo c’era anche Di Livio che era tifosissimo della Roma e non è mai riuscito a giocarci in serie A: so per certo che è una cosa che gli rode tanto!".

Hai nostalgia di quei tempi?
"Erano tempi in cui c’era tutto: voglia di fare, aspettative, sogni da realizzare, la salute (ride, ndr). Non che ora i sogni non ci siano, perché io sono un sognatore nato. Ma era veramente un bel periodo, quello in cui ti senti onnipotente, imbattibile. La bellezza della gioventù, il gusto dell’attesa per la carriera che doveva venire".

Poi arrivò il Pisa: primo anno con promozione in serie A, poi un campionato dove non salti una partita e sei capocannoniere della squadra. Che ricordi hai di quel biennio?
"Stupendi. Sono stati due anni tra i migliori che ho trascorso sotto tantissimi aspetti. Ero ragazzino e mi hanno preso, coccolato e accettato nella squadra. Con Simoni allenatore mi ritagliai un posto da protagonista. La cosa bella di Pisa è che lì ero considerato una persona. Quando tornai a Roma, in una grande squadra, soffrii il fatto di essere considerato un numero. E’ il motivo per cui nella mia carriera ho sempre preferito andare a giocare in provincia. Probabilmente non avevo la cattiveria, il carattere giusto per giocare in una grande squadra. Ero molto emotivo: se sbagliavo una partita mi abbattevo. A Pisa ero un ragazzo felice che riusciva a esprimersi bene. A Roma, invece, ebbi vari problemi, anche di carattere fisico".

Ricordo che a Roma, su di te, c’erano grandi aspettative. Come andò la stagione con Eriksson?
"Mi aspettavo di avere più chances. Ricordo che giocai la prima partita da titolare a Empoli e feci due gol; poi contro l’Udinese vincemmo 4-0 e feci una buona partita. A Firenze però, quando rientrò Pruzzo, Eriksson mi fece fuori. Io avevo bisogno di continuare a giocare, di sentire la fiducia dell’allenatore. Ma forse non gli andavo bene. Probabilmente era una considerazione che andava fatta dall’inizio: avevo la Juve, l’Inter, la Sampdoria che erano interessate a me. I blucerchiati avrebbero fatto carte false per avermi con Vialli e Mancini in modo da riproporre il trio dell’Under 21. Poi, a dicembre, ebbi anche problemi alla schiena e venni curato male: il fisioterapista di Eriksson trattava una sciatalgia come se fosse uno stiramento. Mi avvilii e così cominciai a girare la provincia andando in prestito. Alla fine la prima squadra ad acquistarmi definitivamente fu il Lecce".   

Dopo le annate a Empoli e Avellino tornasti nuovamente a Roma. Cosa successe in quella seconda esperienza a Trigoria?
"Quell’anno mi sono divertito anche se non giocai molto: ne conservo un bel ricordo. Radice era una brava persona, curava molto i rapporti anche coi giocatori che stavano fuori: si era creato un bel gruppo. Arrivammo in Coppa Uefa e ci levammo diverse soddisfazioni".  

Quale fu, invece, il tuo rapporto con la maglia azzurra dell’Under 21?
"Solo due-tre anni fa ho scoperto di avere un record che non conoscevo: quello di aver segnato in cinque partite consecutive come Paolo Rossi. Vicini mi aspettava ma ovviamente se non giocavo non potevo andare nella nazionale maggiore: della nidiata della sua Under 21 io mi sono perso un po’ per strada. Per elevarmi avrei avuto bisogno di una Sampdoria, una squadra emergente dove arrivare e trovare la mia dimensione. Borea, allora dirigente dei blucerchiati, una volta telefonò a casa che non c’ero: rispose mia madre, disse che avrebbe richiamato. Invece non si fece più sentire: è un rammarico della mia vita. Alla Sampdoria avrei potuto trovarmi a mio agio: era una squadra allegra, spensierata, anche con delle responsabilità che però non aveva il peso della Roma. Giocare coi giallorossi non è facile: devi sopportare parecchio, bisogna avere spalle belle larghe. Le aspettative che ci sono a Roma dalle altre parti non ci sono, nemmeno nelle squadre vincenti".      

Il giallorosso è stato un accoppiamento cromatico che ha segnato la tua vita calcistica. Come descriveresti le quattro stagioni passate a Lecce?
"Anni belli. Sono arrivato che si doveva risalire in serie A (1991-92, ndr) e invece facemmo un campionato disastroso, anche se io feci dieci gol. L’anno successivo si costruì una squadra giovane, fatta per salvarsi, prendendo diversi prestiti dalla Roma, come Grossi, Maini e Scarchilli, e dall’Atalanta, come Orlandini. Invece andammo in serie A, inaspettatamente. Sai quando si crea il giusto equilibrio? Avevamo un gruppo fantastico. Con Bolchi giocavamo col 4-2-3-1 e io ero una sorta di “falso nueve” che mandava dentro i compagni. La prima in A l’anno dopo giocammo subito contro il Milan: stadio pieno, loro entrarono in campo tutti belli mentre noi non avevamo neanche lo sponsor… Fu un anno catastrofico. Comunque a Lecce ho fatto quattro stagioni e mi sono trovato bene, tanto è vero che alla fine ci sono tornato a vivere".

E’ vero che avesti anche un approccio col Milan di Capello?
"Si, stiamo parlando della fine della stagione 1993-94. Quell’anno in campionato contro il Milan feci bene: all’andata presi un palo e al ritorno, giocando solo davanti, tenni impegnati Maldini, Costacurta e Baresi: li feci penare! Poi Capello si ricordava di me dai tempi in cui allenava la primavera perché al Viareggio Roma e Milan si erano incontrate. Mi chiesero se volevo partecipare a una tournee in giro per il mondo che avrebbero fatto dopo aver vinto la Coppa dei Campioni contro il Barcellona. Io accettai. C’erano anche Padovano e Allegri, che tra l’altro Capello mandò via dopo una settimana perché faceva un po’ come gli pareva. Non si impegnava, non gli importava niente: era un po’ come se fosse in vacanza. Insomma, partiamo, facciamo il primo allenamento e dopo mezz’ora Capello ferma tutti e dice:”Qui al Milan ci si impegna più in allenamento che in partita. Voglio dirlo soprattutto ai nuovi, in particolare a Baldieri, che l’allenamento lo sta guardando”. In quelle partite giocavamo davanti io e Savicevic, due mancini: alla fine di quelle amichevoli feci sette gol. Tanto che Capello, prima di partire per andare ad assistere ai mondiali in America, mi disse:”Baldieri non firmare per nessuno che l’anno prossimo vieni da noi”. Tanto che gli risposi:”Mister, vengo pure a vendere le noccioline allo stadio!”. Invece quella chiamata non è mai arrivata".    

Credi che, con le tue caratteristiche, saresti stato facilmente adattabile al calcio di oggi?
"Quello che posso dirti è che probabilmente avrei più successo perché con le regole di oggi prenderei molti falli in meno: all’epoca ti menavano, ti pestavano i piedi. Io avevo le unghie intercambiabili! Il marcatore ti alzava e il libero ti rinviava! Insomma, oggi per me sarebbe un po’ più facile. E poi mi prenderei il preparatore atletico personale".

Hai mantenuto delle amicizie tra i tuoi ex colleghi?
"Si, ogni tanto con qualcuno ci sentiamo. E’ capitato che tre anni fa siano venuti a trovarmi al mio bar Conti, Desideri e Giannini insieme a Miccoli. Con Righetti mi sento spesso, più saltuariamente con Dario Bonetti. E poi mi capita di andare a mangiare al ristorante di Di Carlo. Diciamo che mi sento regolarmente con una decina di ex colleghi. Poi capitano gli incontri più occasionali: fa sempre piacere. Poi la vita gira a suo modo: se esci dal mondo del calcio cambi totalmente".  

Qual è il giallorosso che preferisci tra Roma e Lecce?
"Ti rispondo così: nel 2012 andai allo stadio a vedere Lecce-Roma con mia moglie e mio figlio più piccolo. Lui con sciarpa e maglietta della Roma, lei con sciarpa della Roma e io… con la sciarpa del Lecce! Andammo nella curva sud del Lecce, che fece quattro gol ai quali io esultai. Al 4-0 mio figlio si alzò e disse:”Non è possibile! Sei un traditore! Tu sei nato a Roma, hai giocato nella Roma e adesso fai il tifo per il Lecce?”. Al che lo guardai e gli dissi:”A Edoa’… a parte che io sto sempre dalla parte del più debole: anche se c’è Roma-Pisa io faccio il tifo per il Pisa. Ma poi oggi la Roma coi tre punti non ci fa niente mentre se il Lecce vince può sperare ancora di salvarsi e la Roma la possiamo rivedere qui il prossimo anno”. E’ un amore strano, una situazione anomala anche per me perché comunque io la Roma la seguo sempre e se gioca bene e vince sono contento".

Condividi

  • Link copiato

Commenti