Salvatore Di Somma, l’uomo simbolo della resilienza irpina

Salvatore Di Somma, l’uomo simbolo della resilienza irpina

Approdato all’Avellino nell’estate del 1977, divenne il capitano della squadra che raggiunse orgogliose salvezze anche negli anni successivi al terremoto del 1980

Paolo Valenti/Edipress

11.04.2023 10:37

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Quando, al termine della stagione 1977-78, l’Avellino ottenne la promozione in Serie A, l’Irpinia esplose di gioia. Era la prima volta che i Lupi arrivavano nella massima serie e tutta la provincia comprese il valore di quell’evento che, grazie all’importanza del calcio in Italia, andava oltre il mero fatto sportivo. Mutuando il commento di Gianni Brera sul Cagliari del 1970 (“La vittoria dello scudetto rappresentò l’ingresso della Sardegna in Italia”), la partecipazione dell’Avellino alla Serie A significava il riconoscimento a livello nazionale di una realtà locale spesso dimenticata.

Di Somma e l’esordio in Serie A con l’Avellino

Di quella squadra, guidata in panchina da Rino Marchesi, facevano parte molti buoni giocatori, tra i quali vale la pena ricordare Piotti, Beruatto, Vincenzo Romano, Casale, Montesi, i fratelli Piga, Giuseppe Massa e Gil De Ponti. Chi proiettato verso squadre più importanti e chi, al contrario, ad Avellino c’era per ritrovarsi o per spendere al meglio l’esperienza maturata altrove. L’elemento di stabilità che facilitava il funzionamento di quel gruppo, oltre al capitano Lombardi, era Salvatore Di Somma, un metro e ottantasei centimetri di pratica sostanza applicati alla chiusura dei varchi lasciati scoperti dai compagni in una difesa che spesso doveva ricorrere alle maniere forti per arginare l’impatto di squadre meglio attrezzate dal punto di vista tecnico. Libero vecchie maniere, era arrivato a vestire la maglia verde nell’estate del 1977 proveniente dal Pescara, col quale aveva ottenuto la promozione in Serie A. Per lui, classe 1948, alla soglia dei trent’anni sarebbe stato l’esordio nella massima divisione, dopo un percorso vissuto in crescendo tra Juventus Stabia, Lecce (dal 1968 al 1975) e gli abruzzesi, che però decisero di puntare sul giovane Roberto Galbiati invece che confermargli la fiducia. Una scelta che il tempo rivelò ottimale per entrambi: Galbiati ebbe una buona carriera (vestirà le maglie di Fiorentina, Torino e Lazio) mentre Salvatore diventò un idolo del Partenio, spendendo ad Avellino gli ultimi sette anni da calciatore, iniziando alla grande proprio con la promozione (per lui la seconda di fila).

Il terremoto del 1980

Dopo l’addio di Lombardi, diventa il capitano indiscusso della squadra fino al momento del ritiro, avvenuto al termine della stagione 1983-84. Sono annate intense che culminano sempre con la salvezza e riempiono d’orgoglioso senso di appartenenza tutta l’Irpinia, che in quegli anni deve anche affrontare le gravi difficoltà derivanti dal terremoto del 1980, vissuto in prima persona, ovviamente, anche da Di Somma che la domenica sera del sisma, ritrovandosi per strada insieme alla gente comune, toccò con mano l’importanza della squadra per la città, che con la vittoria maturata nel pomeriggio sull’Ascoli (4-2) aveva saputo dare un barlume di speranza in un momento così tragico. L’Avellino divenne la zattera a cui aggrapparsi per approdare a momenti migliori: Di Somma, da capitano responsabile, strinse un patto coi compagni per giocare ogni partita come se fosse l’ultima, con la rabbia e la determinazione di chi non si vuole arrendere. La salvezza arrivò anche in quella stagione, complicata, oltre che dalle calamità naturali, anche dalla penalizzazione di cinque punti ereditata dallo scandalo del calcioscommesse.

Salvatore Di Somma, vita da capitano

Gioco e battaglie, anima e cuore, sudore e lacrime: questo si aspettano i tifosi da un capitano. E questo è ciò che dette Di Somma all’Avellino. Come quella volta che, in uno scontro di gioco, cadde esanime a terra andando in arresto cardiaco. Era l’8 novembre del 1981, le ferite del terremoto ancora aperte e dolenti, ancora l’Ascoli ospite al Partenio. Se non fosse stato per il pronto intervento del medico sociale, il dottor Cerullo, forse la città avrebbe dovuto versare altre lacrime amare. Salvatore si riprese e continuò a guidare la squadra verso quegli scudetti che si chiamano salvezza. Senza negarsi la gioia di qualche regalo prezioso, come il gol segnato alla Juventus il 31 ottobre 1982, quando i bianconeri scesero al Partenio gonfi di campioni del mondo e fuoriclasse stranieri che però non riuscirono a portare a Torino la vittoria che la rete di Scirea sembrava poter garantire. Avellino era un campo difficile da affrontare, proprio come il suo capitano, che finita la carriera ha continuato a masticare calcio sia in panchina che nelle vesti di direttore sportivo, ruolo ricoperto, tra l’altro, nel Benevento della stagione 2016-17, quella che portò per la prima volta in Seria A i sanniti.

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