Efficacia e bellezza: il calcio di Menotti

Efficacia e bellezza: il calcio di Menotti

Se ne è andato a 85 anni il commissario tecnico dell’Argentina del 1978, ex allenatore, tra le tante, della Sampdoria e a Barcellona con Diego Armando Maradona prima di Napoli  

Tommaso Guaita/Edipress

07.05.2024 ( Aggiornata il 07.05.2024 15:34 )

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L'Estadio Monumental di Buenos Aires è un cerchio perfetto, che la contingenza ha trasformato in un catino infuocato. L'azzurro e il bianco del vessillo Argentino ricoprono ogni fazzoletto lasciato libero dalla gente, che a sua volta sventola bandierine con i colori nazionali. Compressi uno sull'altro in un enorme abbraccio collettivo, festeggiano la vittoria del Mundial casalingo, dimenticandosi che la mattina dopo l'euforia rientrerà nei binari della normalità.

A soli settecento metri da lì, alla Scuola di meccanica della Marina, il governo imprigiona, tortura e uccide. Chi ha parlato sarà fatto stare zitto e chi non l'ha mai fatto dovrà continuare a tenere la testa bassa e la bocca cucita. Così vogliono Jorge Rafael Videla, Emilio Massera e Orlando Agosti, il cerbero a tre teste che comanda la Giunta militare che dal colpo di stato del 1976 governa il Paese.

Tra le migliaia di persone in festa, c'è un allenatore che a nemmeno quarant'anni ha già scalato tutti i gradini che portano alla gloria sportiva, ma che ha dovuto passare attraverso mille ripensamenti per essere lì: ogni mese ha presentato le dimissioni in Federazione, ma il presidente le ha respinte. Suo malgrado, con la vittoria è diventato un veicolo della propaganda di regime e megafono di una dittatura che le persone che la pensano come lui le fa sparire senza lasciare traccia.

Luis Cesar Menotti, di formazione peronista, nel cuore, nella pratica e nel pensiero era comunista. Tanto che nei mesi precedenti aveva rischiato di finire in quel luogo senza ritorno dove si sono dissolti i desaparecidos, buio e ghiacciato come il nono cerchio dell'Inferno di Dante.

In macchina con degli amici, era stato fermato dalla polizia militare, tirato a forza per i capelli – che per tutta la vita ha tenuto lunghi a coprire le orecchie come quelli dei Beatles – sbattuto faccia a terra e minacciato di morte sotto il tiro di una pistola. Solo quando qualcuno l'aveva riconosciuto, “Accidenti, ma quello è il Ct dell'Argentina”, si era salvato da un destino ben peggiore tra le scuse imbarazzate dei soldati.

 

Menotti, epopea del Flaco

 

Lo chiamavano “Flaco”, il magro, perché era alto e allampanato. Fumava dai due ai tre pacchetti di sigarette al giorno, per stemperare la tensione accumulata in quel periodo da incubo. L'Argentina doveva vincere quel Mondiale e l'aveva vinto, ma il costo emotivo dell'impresa era stato corrosivo.

La gente lo implorava perché vincesse, così da nascondere il dolore per una notte. I militari, sempre a fianco della squadra, pretendevano quel successo, perché così avrebbero recuperato un po' di popolarità tra le masse oppresse. I giocatori guardavano a lui per essere rassicurati, guidati, difesi.

E lui lì, la cicca in bocca sempre accesa. Lo sguardo malinconico fisso in un punto lontano. Parlava, insegnava, spiegava calcio. Prendendosi pause, riflettendo. Tra un sospiro e una tirata.

Dopo il 3-1 in finale sull'Olanda, Videla, il dittatore, l'aguzzino, il boia, aveva premiato la squadra e in campo gli aveva stretto la mano. I due, il comunista e l'assassino si erano guardati negli occhi. Si erano fatti fotografare. Tanti anni dopo, Menotti ancora se ne rammaricava.

Un esempio di come vedeva il mondo? Andando contro la volontà popolare, aveva escluso un giovane Diego Armando Maradona, stellina dell'Argentinos Juniors già con l'aura del predestinato, con il solo intento di proteggerlo dalla pressione ambientale che tutto travolgeva. Avrebbe rischiato di bruciarsi. Poi insieme avevano vinto il Mondiale Under 20 in Giappone l'anno seguente, forse la gioia più pura per il Menotti allenatore.

Non aveva denunciato le torture, le sparizioni, è vero, ma disse che non sapeva che i cadaveri degli oppositori venivano gettati nell'Oceano dagli elicotteri. Non conosceva quanto era terribile la barbarie che lo circondava e, a sua discolpa, nel 1980 fu l'unico sportivo a firmare una petizione del quotidiano “Clarín” affinché fossero pubblicate le liste dei desaparecidos.

Da giocatore, Menotti è stato una vita nel Rosario Central, già cerebrale e flemmatico. Ha accumulato una manciata di presenze in nazionale e poi è andato svernare al Santos come riserva di Pelé, dove ha imparato a coltivare il culto della bellezza dai migliori.

 

Menotti, l’allenatore

 

Una volta ritirato, si è seduto sulla panchina dell'Huracán e l'ha portato ai vertici della Primera División facendo innanzitutto correre la palla. Era il tipo di allenatore che se vinceva una partita 1-0 giocando male lasciava il campo amareggiato, perché “non vedo un futuro”.

Diceva che per vincere una finale ci vogliono cinquanta giorni di concentrazione e sacrifici, ma che tutto questo non merita il rispetto dovuto a un “ragazzo che fa quattro lavori, non dorme, mangia male e riesce comunque a risparmiare qualche pesos”.

Dopo la nazionale – allenata anche in Spagna, quando l'Italia l'ha battuto 2-1 – ha girato molto, passando da Madrid, sponda Atletico, Uruguay e Messico. È stato pure a Barcellona, ai tempi di Diego: “Cesar, se rimani io non vado a Napoli”, gli aveva detto il “Pibe”. Lui era tornato in Argentina.

In Italia lo abbiamo visto nella Sampdoria nel 1997, per otto brutte partite: “Pochi sogni e troppi coglioni”. Non era roba per lui.

“Chi era Menotti?” hanno chiesto a Carlos Bilardo, il secondo dei tre allenatori che hanno vinto una coppa del Mondo con l'Argentina e contraltare della sua visione di calcio: “Un uomo che quando ha un'idea la vuole imporre”. Li volevano nemici, ma il “Flaco” non ha mai abboccato.

È morto da direttore tecnico della nazionale campione del Mondo in carica, a ottantacinque anni. Probabilmente con l'ennesima sigaretta tra le labbra, anche se gli avevano ordinato di smettere. Era considerato un “Maestro”, uno che vuole trasmettere concetti e un'idea di vita più che semplici schemi tattici. Ha plasmato il calcio argentino per come lo conosciamo ora, lavorando sulla tecnica individuale, la mentalità offensiva e la garra: “L'efficacia non deve essere slegata dalla bellezza. Il nostro calcio è sempre stato entrambe le cose. La bellezza non è un orpello”.

 

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