Paolo Conti, il “baffo” funambolo

Paolo Conti, il “baffo” funambolo

Dall’esordio in Serie A con la maglia della Roma il 18 novembre 1973 iniziò la storia di un portiere atipico, senza guanti e sempre in uscita bassa

Paolo Marcacci/Edipress

18.11.2023 ( Aggiornata il 18.11.2023 16:18 )

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Le figurine della nostra Serie A, quando eravamo ragazzini, avevano i baffi; spesso i basettoni e la chioma ribelle, arruffata, come i protagonisti dei “poliziotteschi” di Umberto Lenzi. Non sempre, però, parlavano in maniera forbita, analitica, come veniva naturale a Paolo Conti, nato funambolo, diventato portiere.

Venuto alla luce a Riccione il primo giorno di aprile, ma non era uno scherzo; casomai una canzone di Amedeo Minghi, perché era il 1950, con l’Italia in ricostruzione e Serenella che avrebbe ascoltato alla radio quella canzone pensata per lei.

 

La fine del “grigio” del portiere

 

Una ventina d’anni dopo, gracchiando ogni domenica la radio avrebbe iniziato a parlare di lui, minuto per minuto, anche per la ventata di novità che il personaggio, divenuto portiere per caso, avrebbe portato nella nostra Serie A: con le sue divise colorate rispetto al grigio usuale, stile Zoff per capirci; con le sue uscite basse e apparentemente avventate, che anticipavano i tempi oltre che gli attaccanti; con l’usanza di giocare senza guanti, senza proteggere le manone che erano due morse ma, un po’ come l’olandese Jongbloed, tra i primi a usare i parastinchi, proprio perché la proiezione in uscita comportava gli impatti che coinvolgevano gli arti inferiori.

«Dicevano che ero un portiere che comandava la difesa, che uscivo spesso dall’area perché avevo il fisico, con i piedi, sull’avversario… Ma ero solo un autodidatta: io non avevo fatto il settore giovanile, venivo dalla strada, dai parchi, dalle partite con gli amici. Dovevo solo coprire i miei limiti. E poi fino ai diciotto anni ho giocato solo praticamente da centravanti, mica da portiere»: troppo vero per non essere pure bello, ci volle l’occhio di un dirigente del Riccione durante una partitella.

 

Gli inizi e l’esordio in serie A

 

Dal 1968 al 1970 nella società di casa, poi due anni di Modena, quindi Arezzo nel 1972-73, stagione al termine della quale arriva la chiamata della Roma, che inizia a pensare al futuro dopo Ginulfi.

Il 18 novembre del ‘73, mezzo secolo fa, Paolo Conti esordisce tra i pali all’Olimpico, dal primo minuto, contro il Verona: comincia un’era, per la società giallorossa, con una vittoria per 1-0 firmata da Pierino Prati su rigore. Non impiegheranno troppo tempo, i tifosi della Roma, a individuare il soprannome giusto per quel portiere così naïf: bocciato in fretta il banale e troppo politicizzato “baffone”, Paolo Conti diventa “tenaglione” per via di quelle mani grandi e forti, senza guanti, che in uscita bassa si aprono come ombrelli e che nel campionato 1974-75, quello di un orgoglioso terzo posto, proteggeranno la porta giallorossa al punto tale da renderla la meno perforata della Serie A. «Tra le tante cose non capivo, prima di venire a Roma, come si potesse impazzire per il calcio, mi sentivo lucido, capite? Ero distaccato, ma non freddo, questo mai. Roma m’è rimasta nel sangue, e io sono rimasto romanista».
Un breve interregno con Ginulfi, poi l’avvio di un voluminoso capitolo di storia della Roma, composto da sette campionati e 206 presenze complessive, con 205 reti incassate, più la Coppa Italia del 1980, vinta quando l’avvicendamento con Franco Tancredi si è già consumato.

 

Dopo la Roma

 

Conti lascia la Roma nell’estate del 1980, per poi percorrere con estrema rilassatezza e con una serie di stagioni più che degne il viale del tramonto: Verona in B, vestendo la maglia della società contro la quale aveva esordito in giallorosso; poi due anni di Sampdoria, con tanto di promozione dalla B alla A nella primavera del 1982; la stagione ‘83 - ‘84 a Bari in C1, quindi quattro anni a Firenze, con il ritorno in Serie A come secondo di Giovanni Galli, dal 1984 al 1988. Nel suo palmarès personale, anche la maglia azzurra, con sette presenze dal ‘77 al ‘79, più l’esperienza come secondo di Zoff al Mondiale argentino del 1978, dove lui e Jongbloed i guanti li incrociarono per davvero. I guanti no, perché entrambi ne facevano a meno.

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