L’intervista impossibile: Gigi Radice

L’intervista impossibile: Gigi Radice

Dalla carriera da giocatore a quella da allenatore, abbiamo immaginato di incontrare il tecnico dell’ultimo Torino campione d’Italia e ripercorrere insieme la sua vita calcistica

Redazione Edipress

10.07.2019 15:23

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Gigi Radice è stato uno degli allenatori più apprezzati negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. Col Torino campione d’Italia nella stagione 1975-76 seppe portare a sintesi le vertigini del calcio totale olandese con il pragmatismo della tradizione italiana. Soprannominato “sergente di ferro” piuttosto che “tedesco” per i suoi modi a volte bruschi, in realtà era un professionista che amava profondamente il proprio lavoro e aveva a cuore il rapporto umano con i suoi calciatori. In questa intervista virtuale emergono i tratti costitutivi di un personaggio che ha raggiunto le sue vittorie grazie alla passione e trovato nel suo innato orgoglio le risorse per convertire in nuove avventure la delusione delle sconfitte. 

Allora Gigi, la maggior parte di noi ti ha conosciuto come un allenatore di successo. Ma prima di sedere in panchina sei stato un calciatore anche tu. E che calciatore…
Beh dai, non esageriamo. Diciamo che me la cavavo abbastanza bene ma che sono stato sfortunato: ai miei tempi le tecniche operatorie del ginocchio erano primordiali e ho dovuto smettere di giocare presto per gli infortuni. A trent’anni ho preso la decisione finale ma in realtà erano già due stagioni che non riuscivo a scendere in campo.

Come giocavi?
Correvo. Ma non ero male nemmeno coi piedi. Mi piaceva il movimento, non a caso giocavo mediano. Quando Gipo Viani decise di spostarmi a terzino, inizialmente non condivisi quella scelta. Poi, col tempo, compresi che era un ruolo nel quale potevo dare qualcosa di nuovo, proprio per le mie capacità dinamiche. Oggi è la norma ma negli anni sessanta sono stato tra i primi a fare il terzino di spinta, quello che non si limita a marcare l’ala avversaria ma supera anche il centrocampo per sostenere la manovra.       

Quali furono i compagni con i quali ti trovasti meglio in campo?
È una domanda rognosa. Mi è più facile dirti quelli che mi sono rimati più impressi. Ricordo Liedholm per la sua maniacale dedizione al lavoro. Schiaffino in partita era geniale: nonostante questo, fuori dal campo si dimostrava sempre disponibile, anche con i ragazzini. Sono stato fortunato ad avere compagni come loro, oltre agli altri che qui sarebbe troppo lungo elencare.

Quanto influirono sulla tua carriera di allenatore?
Ebbero la loro parte, come la ebbe la mia esperienza da calciatore e lo studio delle dinamiche di gioco delle grandi squadre.   

Qualcuna in particolare?
Beh, quando cominciai ad avere dei risultati di rilievo erano i primi anni ‘70. E a quei tempi l’Olanda rappresentava l’avanguardia calcistica, la rivoluzione della società portata sui campi di calcio. Ovviamente il loro modo di giocare era figlio di una cultura diversa da quella italiana, per cui io non pensavo che sarebbe stato possibile replicarlo appieno anche da noi. Alle mie squadre cercai di inculcare soprattutto il principio del pressing. I meno giovani forse ricordano che Graziani era soprannominato “il generoso” proprio perché interpretava al meglio, come attaccante, quel tipo di attitudine che chiedevo ai miei giocatori.

Se parli di Graziani non può non venire il mente il tuo Torino, quello che nel 1975-76 tornò a vincere lo scudetto dopo la tragedia di Superga.
Già. Un amore infinito quello per il Toro, viscerale. Essere granata è uno stato d’animo, un modo di essere, una passione che contagiò anche i miei figli. Soprattutto le ragazze, che avevano sempre seguito con un certo distacco le squadre per le quali avevo lavorato, del Toro divennero tifose sfegatate. E mio figlio Ruggero imparò a fare i gestacci agli juventini… non è bello, lo so, è solo per dire quanto i miei ragazzi furono ammaliati da quella squadra, quella tifoseria, quell’ambiente. Il Toro mi è rimasto dentro fino alla fine.

Come giocava quel Torino?
Come ti dicevo prima, cercai di adattare al nostro calcio alcuni dei principi che gli olandesi mostravano in tutta Europa con l’Ajax e la loro nazionale. Innanzitutto il pressing, poi la zona, anche se non me la sentivo di praticarla in maniera integrale e quindi optai per quella mista. Quello scudetto fu fantastico anche per il modo in cui arrivò: a fine febbraio eravamo distanti dalla Juventus cinque punti. All’epoca era molto più difficile rimontare perché le vittorie davano solo due punti. Ma noi ci riuscimmo, crescendo in convinzione anche quando eravamo ancora indietro. Non volevamo dirlo per non illudere né la gente né noi stessi ma fu difficile non esternare la nostra fiducia in qualcosa a cui sentivamo che saremmo potuti arrivare.

Il Torino, per te, non ha significato solo gioie.
Hai ragione. I momenti brutti del periodo granata cominciarono già nella primavera del 1979, quando ebbi quello spaventoso incidente d’auto dove morì il povero Barison. Un trauma, un grande dolore e la difficoltà, almeno all’inizio, di non sentirmi colpevole per essere sopravvissuto. Tornando alle questioni di campo, invece, l’anno successivo accadde quello che mai avrei immaginato: fui esonerato dopo una serie di partite che non riuscimmo a vincere. Lo so che funziona così, è la legge del calcio: quando non ci sono i risultati è più facile cambiare l’allenatore che i giocatori che non rendono. Però io pensavo che nel Torino avessimo costruito qualcosa di diverso, un ambiente più simile a una famiglia che a un qualsiasi altro luogo di lavoro.

Come reagisti?
Ebbi il mio tempo per assorbire la delusione e l’anno dopo mi rimisi in gioco. Accettai di allenare il Bologna, che era stato penalizzato di cinque punti dopo il calcio scommesse, e lo portai a un settimo posto che, coi punti effettivamente guadagnati sul campo, valeva il quinto. Poi, dopo tanti anni, tornai al Milan ma fu una delusione: dovetti rinunciare a Franco Baresi per molte partite, i risultati non venivano. Alla fine di gennaio Farina mi mandò via anche se purtroppo il Milan non riuscì comunque a riprendersi e a fine anno retrocesse in Serie B.

Il calcio è strano.
Decisamente. Pensa al mio percorso in quei primi anni ‘80: comincio bene col Bologna, non riesco a evitare la retrocessione al Milan e, l’anno successivo, neanche al Bari, che mi aveva chiamato a stagione in corso per sostituire Catuzzi. Però nell’estate del 1983 mi chiama l’Inter, una squadra che ha in rosa gente come Zenga, Bergomi, Collovati, Ferri, Bagni, Marini, Altobelli… Insomma, alla fine arriviamo quarti qualificandoci per la Coppa Uefa. 

Era arrivato il momento di tornare a casa.
Sì, mi richiamò il mio Toro: il presidente Sergio Rossi e Luciano Moggi volevano progressivamente ricostruire una squadra di vertice. Con Junior, Dossena, Schachner e Serena arrivammo secondi dietro al mitico Verona di Bagnoli. Sembrava un buon viatico per ripetere i risultati di dieci anni prima. In realtà quello del primo anno fu il risultato migliore della mia seconda esperienza in granata che, come anche la prima volta, finì con un amaro esonero. Ancora più triste perché fu il preludio della retrocessione del 1989.

Anche quella volta, però, trovasti il modo di riprenderti.
Sì, fa parte del mio carattere. Forse è anche per questo che mi chiamavano il “sergente di ferro”. Ma in realtà a me piaceva solo mettere delle regole e farle rispettare: senza regole alla lunga una squadra non sopravvive. Sono sempre stato testardo, talvolta brusco nei modi. Ma i giocatori apprezzavano la franchezza del rapporto che instauravo con loro. Chiedete a Ruggiero Rizzitelli: una volta avevo deciso di non farlo partire titolare come al solito perché non stava attraversando un buon momento di forma. Glielo dissi di persona, guardandolo negli occhi: ovviamente non fu contento ma apprezzò la chiarezza con cui avevo affrontato la situazione.

Stai parlando dell’anno che allenasti la Roma?
Sì. Fu un anno particolare, nato sotto i peggiori auspici. Il presidente Viola aveva dovuto ridimensionare la squadra, che non si era qualificata per le coppe europee ed era costretta a giocare al Flaminio perché l’Olimpico andava ristrutturato in vista dei Mondiali del 1990. La conseguente riduzione degli incassi pesava sul bilancio della società in maniera molto più importante di oggi, visto che nel 1989 gli introiti derivanti da diritti televisivi erano poca cosa rispetto alle cifre odierne. Era una squadra di buoni giocatori con delle punte di eccellenza costituite da Giannini e Voeller oltre a un Bruno Conti che, anche se ultratrentenne, riuscì a dare un notevole contributo. La gente era scettica, dopo quasi un decennio di estati con alte aspettative si sapeva che la Roma non avrebbe avuto nessuna possibilità di competere per il vertice. Anche le amichevoli precampionato non erano andate granché e il clima di contestazione aleggiava nell’aria.

Poi cosa successe?
Ai ragazzi feci un discorso chiaro: volevo una squadra di irriducibili combattenti. L’orgoglio personale e la determinazione erano le armi alle quali dovevamo far ricorso per sopperire ai limiti di quella stagione. Si creò un bel gruppo, unito: ogni partita era una battaglia che il pubblico del Flaminio, meno numeroso ma più vicino al campo rispetto all’Olimpico, ci aiutava a combattere. Raccogliemmo le nostre soddisfazioni, soprattutto quella di aver riportato la gente dalla nostra parte.

Non fu sufficiente, però, per essere confermato l’anno successivo.
Avevo firmato un contratto di un anno con opzione per quello successivo. In realtà Viola era già d’accordo con Ottavio Bianchi per la stagione seguente e io dovetti andarmene a malincuore. Fino all’ultimo sperai di essere confermato, anche quando dell’arrivo di Bianchi parlava ormai tutta la stampa. Non volevo firmare per un’altra squadra, avrei voluto rimanere a Roma.   

Che ci dici della tua ultima esperienza di rilievo come allenatore, quella vissuta sulla panchina della Fiorentina fino ai primi giorni del 1993?
Stavamo facendo un ottimo campionato, prima di Natale eravamo secondi. Poi successe tutto quel trambusto in diretta tv con Vittorio Cecchi Gori. Una brutta pagina per la storia della Fiorentina: credo che il danno di immagine che venne fuori all’epoca e le relative conseguenze sul campo, che culminarono con la retrocessione, non meritino ulteriori commenti da parte mia. Riparlare di quella situazione mi dà ancora imbarazzo e dispiacere.

Sei soddisfatto di quello che hai lasciato?
Assolutamente sì! Ho fatto il mio lavoro sempre col massimo del coinvolgimento, sono stato compagno di calciatori fortissimi, mi sono impegnato a insegnare ai giovani non solo cose di calcio, ho vissuto le gioie e i dolori della vita incorniciandoli nell’amore di una famiglia unica. Sono grato per ciò che ho avuto e orgoglioso di quello che ho costruito. 

Grazie Gigi, vecchio cuore granata.
Grazie a te.

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