Felice Pulici, numero uno e anima serena di una Lazio inquieta

Felice Pulici, numero uno e anima serena di una Lazio inquieta

Portiere della squadra campione d’Italia del 1974, rimase legato alla società biancoceleste anche dopo il ritiro rappresentandola come dirigente

Redazione Edipress

26.03.2019 ( Aggiornata il 26.03.2019 15:40 )

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L’ultimo volo l’ha fatto poco più di due mesi fa: decisivo, ineluttabile e finale. Nella città dove non era nato ma aveva scritto la sua storia e vissuto le sue emozioni, alla quale aveva regalato il meglio di sé. Felice Pulici è stato il portiere della Lazio del primo scudetto, forse l’unico angelo, per modi e stile, di una squadra irripetibile non tanto per i risultati quanto per l’alchimia illogica della quale si nutriva e dalla quale traeva forza.

I PRIMI ANNI. Lombardo di Sovico, arriva in biancoceleste nel 1972 dopo le esperienze di formazione con il Lecco e il Novara. La Lazio, nel bene e nel male, sembra essere nel suo destino già il 10 ottobre del 1971 quando, sceso in campo all’Olimpico per difendere la porta dei piemontesi, prende cinque gol senza destare le attenzioni positive degli spettatori. L’anno dopo quello diventerà il suo stadio, quel pubblico la sua gente. Non è un amore a prima vista: l’adattamento alla grande città non è semplice, lontano dalla famiglia e catapultato in un contesto complicato dove i giocatori, invece che cercare unità, si schierano apertamente l’uno contro l’altro. Chi assiste alle partite infrasettimanali a Tor di Quinto vive momenti inusualmente adrenalinici: i giocatori indossano i parastinchi nonostante all’epoca non siano obbligatori nemmeno nelle gare ufficiali. Urla, arrabbiature, minacce, sfide all’ultimo gol e, dulcis in fundo, spogliatoi separati per i due clan che fanno capo a Chinaglia e Martini. Pulici ha come riferimento Long John ma, visto il carattere equilibrato e la base d’istruzione che da giovane si è costruito, riesce comunque a creare dei canali di comunicazione con tutti. Qualunque squadra, con uno spogliatoio del genere, imploderebbe su se stessa. Quella Lazio, invece, la Lazio degli anni Settanta tutta gol e pistole, la domenica si trasforma, ricomponendo ogni volta la sue fratture, risorgendo dagli abissi di terribili contrasti che Maestrelli spesso fatica a domare. Una squadra senza aggettivi adeguati, di cui Felice Pulici fa orgogliosamente parte per cinque stagioni. Nel 1972-73 le difficoltà iniziali vengono presto superate grazie alla fiducia che il mister più amato della storia biancoceleste ripone nel nuovo portiere. È una prima annata già fragorosa, nella quale la Lazio arriva a sfiorare lo scudetto fino all’ultima giornata. È quella che, per la prima volta, gli fa assaggiare il sapore del derby, dell’Olimpico che tracima più di ottantamila spettatori abbracciati e divisi, sorridenti e arrabbiati, roboanti e inquieti. È un assaggio vittorioso: 12 novembre 1972, 1-0. Gol di Nanni. Anche se, in assoluto, il suo derby più bello lo vivrà quattro anni più tardi: stesso risultato, partita diversa, col portiere biancoceleste superbo protagonista di una vittoria da dedicare a chi, di lì a poche ore, sarebbe stato costretto a salutare tutti senza più poter tornare. Maestrelli fu il primo di quella squadra indimenticabile ad attraversare il confine della storia, un personaggio al quale Pulici si sentiva profondamente legato proprio come a quella società che, però, stava velocemente cambiando pelle, a soli due anni dalla vittoria del primo, quasi impensabile scudetto.

MONZA E ASCOLI. Nel 1977, a trentadue anni, sembra non essere più tempo per lui: Luis Vinicio punta sul giovane Claudio Garella, Pulici a stare in panchina non ci sta e preferisce andar via. Scende in Serie B per indossare la maglia del Monza non senza ambizioni, perché la squadra, tra vecchi marpioni (Anquilletti, Cerilli, Silva) e giovani di prospettiva (Beruatto, De Vecchi, Cantarutti) sfiora la promozione. È l’Ascoli di Costantino Rozzi a regalargli nuovamente la Serie A e l’alta classifica: nel 1980 i marchigiani arrivano addirittura al quarto posto e vanno a vincere l’ultima partita del campionato a San Siro con l’Inter appena diventata campione d’Italia.

IL RITORNO. Nel 1981, a trentasei anni, il vecchio guerriero ha voglia di tornare a casa e trova l’accordo per difendere ancora la porta della Lazio. I tempi sono cambiati: a Tor di Quinto non si va più con le pistole, non ci si allena per battere la Juventus, non ci sono spogliatoi separati. La Lazio è in Serie B, penosa eredità del calcioscommesse dalla quale si riuscirà a liberare solo l’anno successivo, quando il portiere dello scudetto, però, avrà lasciato per sempre i guantoni nell’armadietto. Ma non avrà abbandonato la Lazio, della quale sarà prima allenatore della primavera e successivamente, con l’arrivo alla presidenza di Giorgio Chinaglia, direttore generale. Diventato avvocato, Pulici servirà la società biancoceleste, con vari ruoli e mansioni, anche con Sergio Cragnotti e Claudio Lotito, mettendo a frutto competenze tecniche e doti manageriali che, unite ai modi garbati, ne consolideranno l’immagine di professionista esemplare. Adesso, nel cielo biancoazzurro, anche lui brilla come una stella.

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