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Eugenio Bersellini, più di un sergente di ferro

Eugenio Bersellini, più di un sergente di ferro

Redazione

17.09.2017 ( Aggiornata il 17.09.2017 20:00 )

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Tante sono state le squadre allenate da Eugenio Bersellini nella sua carriera, dalla Sampdoria al Torino alla nazionale libica, ma è chiaro che i suoi anni migliori e con più riflettori puntati addosso sono stati i cinque, dal 1977 al 1982, alla guida dell'Inter con uno scudetto, due Coppe Italia, una semifinale di Coppa dei Campioni e un comportamento onorevole contro squadre più attrezzate di quella costruita da Fraizzoli. Prima fra tutte una Juventus il cui dominio, in quel calcio autarchico (frontiere riaperte nel 1980 e comunque con un solo straniero tesserabile), era ufficializzato ovviamente dall'avere quasi tutti i giocatori della Nazionale di Bearzot. Per Bersellini, appena morto all'età di 81 anni, la fama di sergente di ferro nacque ai tempi della sua prima esperienza sampdoriana a metà anni Settanta: non perché fosse particolarmente duro con i giocatori, ma perché nei primi giorni di ritiro precampionato puntava molto sulla preparazione atletica ed evitava le famose 'partitelle' che ancora negli anni Settanta erano per molti allenatori, anche celebrati, l'unica forma di allenamento. Chi cercava di migliorare sul serio la condizione atletica dei giocatori, come qualche anno prima Heriberto Herrera alla Juventus o Gigi Radice al Torino, si guadagnava facilmente la fama di ginnasiarca o sergente di ferro. Detto questo, Bersellini i giocatori li faceva allenare davvero molto duramente e ce ne rendemmo conto di persona durante il suo primo rititiro con l'Inter, nel 1977 a San Pellegrino Terme, quando da semplici spettatori ci faceva impressione quest'uomo che continuava a richiamare giocatori che, nella nostra testa di bambini, non avrebbero dovuto essere richiamati perché... dovevano giocare. Inconcepibile aspettare la partitella ed assistere invece a una seduta di atletica. Era un'Inter che Fraizzoli aveva ribaltato: Bersellini al posto di Chiappella in panchina, Mazzola da bandiera in campo a consigliere delegato, un nuovo direttore sportivo (Giancarlo Beltrami al posto di Franco Manni), qualche acquisto mirato come Scanziani e soprattutto Altobelli. In quella lunga estate a San Pellegrino si videro allenamenti quasi zemaniani: corsa nei boschi (subito dopo la sveglia, che suonava alle sette e trenta: si è sentito di peggio), ripetute nel fango, balzi, salti, pesi, l'introduzione dei coni per migliorare la destrezza, l'attenzione estrema alla dieta (Bersellini detestava in particolare il riso). Cose oggi banali, ma che quaranta anni fa non lo erano nemmeno per le squadre di élite. Nessuno morì di fatica, come molti giornalisti avevano ipotizzato, nemmeno giocatori avanti con gli anni come Facchetti e Anastasi (in realtà ventinovenne ma già logoro), però Bersellini diventò per tutta Italia il sergente di ferro e il soprannome gli sarebbe rimasto appiccicato per sempre. Il suo lavoro diede comunque frutti ed è per questo che sarebbe stato spesso cercato da squadre all'inizio di un ciclo: non è un caso che il primo trofeo della Sampdoria di Mantovani sia arrivato con lui in panchina. Un uomo di campo, nel senso migliore dell'espressione, con la stessa dedizione al lavoro sia quando dava indicazioni a Roberto Mancini sia quando le dava a El Saadi Gheddafi.

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