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Il Milan senza Berlusconi

Il Milan senza Berlusconi

Redazione

24.05.2017 ( Aggiornata il 24.05.2017 14:12 )

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La morte di Jacopo Castelfranchi ci ricorda che è esistito un Milan prima di Berlusconi. Adesso fra Yonghong Li e Fassone stiamo vivendo il dopo, ancora ingiudicabile, ma 31 anni di era Berlusconi hanno quasi cancellato il ricordo di ciò che c'è stato a livello dirigenziale sia con Milan vincenti sia in periodi di magra. Quasi sempre una grande confusione, risalendo fino ai tempi dei Rizzoli. Castelfranchi, scomparso a 95 anni, è stato uno di quegli imprenditori lombardi del vecchio stampo, con tutti i pro e i contro della situazione: ottime intuizioni nel campo dell'elettronica di consumo (con GBC e Sony Italia), editore di successo (è in questa veste che lo abbiamo conosciuto di persona, per un giornale di calcio in collaborazione con Fulvio Collovati) di riviste di nicchia, ma soprattutto, ed è per questo che ne parliamo sul Guerino, grande appassionato di sport. Sponsor nel ciclismo, nel pugilato, nella pallacanestro (il Geas di Sesto San Giovanni) e di tanti altri sport, il sogno di una vita era quello di diventare presidente del Milan. E a metà anni Settanta quasi ci riuscì. Consigliere del club fin dal 1968, fu sette anni dopo decisivo nella famosa guerra fra Albino Buticchi, allora presidente del Milan, e Gianni Rivera, nata da una presunta trattativa riguardante uno scambio con il Torino fra Rivera e Claudio Sala e poi diventata una vicenda molto più interessante. Tutto era partito non da una trattativa ma da un'intervista a Buticchi in cui il petroliere, mai stato un simpatizzante di Rivera, parlava in libertà di un Rivera sul mercato. Ovvia reazione del Golden Boy, all'epoca trentaduenne ma ancora fortissimo, sia pure in un Milan minore, che minacciò di ritirarsi: soluzione che nel calcio del vincolo era l'unico modo per liberarsi del proprio club. Nella vicenda una parte fondamentale la giocò l'allenatore: Gustavo Giagnoni per un allenamento saltato lo mise fuori squadra. Rivera, figura che nel calcio dell'epoca (senza stranieri, con poca televisione) valeva mediaticamente molto più di Totti nella Roma. Il campione andò quindi a meditare dall'amico Padre Eligio, grandissimo personaggio e sacerdote migliore di altri apparentemente più umili. È questa l'appassionante storia dell'estate 1975, con Rivera che fece intervenire i tanti imprenditori suoi amici, Castelfranchi in testa, che acquistarono la maggioranza del Milan da un Buticchi che non ne poteva più di essere contestato dai tifosi (ci ricordiamo come fosse oggi uno striscione a San Siro: 'Buticchi e Giagnoni, fuori dai...'). C'era anche una cifra, fatta dallo stesso Buticchi, per avere il Milan: due miliardi di lire, maledetti e subito. Per fare un paragone, nello stesso anno Beppe Savoldi sarebbe passato dal Bologna al Napoli proprio per due miliardi, stabilendo un record per il calciomercato. Guerino-RiveraEscludendo di avere quei soldi (in quegli anni un calciatore italiano al top guadagnava sui cento milioni a stagione), Rivera ricorse per un prestito ai suoi amici, soprattutto al finanziere Franco Ambrosio. Intanto Buticchi se ne era andato e la società era nel caos, con presidente provvisorio l'ingegner Pardi. È in questa fase che Castelfranchi avrebbe potuto diventare il nuovo presidente e padrone del Milan mettendo sul piatto i soldi richiesti, liberando Rivera e il suo consorzio dagli impegni e dai debiti. Ma giudicò la cifra troppo alta e sperò di farcela con molto meno, ritenendo che Rivera e i riveriani fossero in difficoltà. Il campionato 1975-76 fu una tortura per Rivera, proprietario preso da problemi più gravi di quelli del campo, dove una squadra mediocre, sia pure guidata da Rocco e Trapattoni (nel frattempo Giagnoni e il suo colbacco erano stati cacciati), non poté fare molto. Fare al tempo stesso il giocatore e l'azionista, oltretutto senza soldi propri, è una situazione insostenibile, così Riverà usò tutta la sua agenda telefonica per trovare un socio forte o, meglio ancora, un nuovo proprietario. Lo individuò in Vittorio Duina, industriale di medio livello. Intanto Trapattoni (siamo arrivati al 1976), fra le altre cose grandissimo amico di Castelfranchi, andò alla Juventus a fare l'allenatore senza tutori e nacque ìl Milan di Pippo Marchioro, le cui idee tattiche erano lontane da quelle di Rocco. Per il profeta di provincia non ci sono mezze misure: santificazione o fallimento. Ventun anni dopo Sacchi avrebbe trovato Berlusconi, più Van Basten e tutto il resto. Mentre il pur preparato Marchioro si trovò un Duina al tempo stesso inesperto e interventista, oltre che poco propenso a spendere. Un Duina che fu contestatissimo, anche se non ai livelli di Buticchi durante la guerra con Rivera, e che avrebbe poi passato la mano a Felice Colombo, a seconda di come la si veda il presidente della stella o del calcioscommesse. Abbiamo ricordato questa vicenda perché per la prima volta in Italia si sentì parlare di azionariato popolare ed in effetti Rivera per qualche mese accarezzò sul serio l'idea: i tifosi del Milan di lui si sarebbero fidati. Per la prima volta un campione avrebbe davvero raggiunto il potere, al di là dei soldi. Forse Rivera non ebbe il coraggio di fare questo passo, forse aveva ancora troppa voglia di giocare (infatti di recente ha rivelato che il ritiro a 36 anni, nel 1979, gli fu in pratica imposto), sicuramente da fuoriclasse sei amato da tutti e pensi di avere più potere di chi sta dietro una scrivania, anche se poi non è così. Se Rivera fosse andato fino in fondo avrebbe cambiato la storia del Milan, più di quanto non abbia fatto, ma soprattutto quella del calcio italiano. Con questo non vogliamo dire che Yonghong Li sia come Duina (forse è meglio, magari è anche peggio, in ogni caso nessuno lo conosce) né che Berlusconi fosse insostituibile, perché ci sono Milan che hanno vinto tantissimo anche senza di lui. Ci limitiamo a una banalità: una proprietà forte e stabile nel tempo è una fortuna.

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