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«Frosinone Brothers», intervista ai Ciofani

«Frosinone Brothers», intervista ai Ciofani

Redazione

30.11.2015 ( Aggiornata il 30.11.2015 11:07 )

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I finestrini abbassati dell'utilitaria di Matteo, il più piccolo dei Ciofani, si fermano davanti al Matusa. Il cancello è chiuso e ad aspettarlo non c'è nessuno. Scende dalla macchina e dopo aver dato una sbirciatina all'interno sfruttando le feritoie chiama il magazziniere: «Gianluuu, mi apri?». L'istantanea della scena, ed è un peccato non sia in bianco e nero, cristallizza il tempo e restituisce attraverso la sensibilità dei suoi interpreti delle tradizioni che sembravano perdute. Qui a Frosinone si conoscono tutti. Saluti, scherzi e pacche sulle spalle tra chiunque. Non ci si priva del contatto umano, non si vagabondeggia con delle enormi cuffie alle orecchie e non si piega la testa allo smartphone. Pochi minuti più tardi arriva Daniel, il fratello maggiore. Lo guardi e fai fatica a pensare che svolga un ruolo diverso da quello che riveste. È il classico bomber del calcio romantico e spontaneo di provincia (Celano e Gela, per citarne alcune) che sgomita in area dando le spalle alle telecamere e segna a raffica obbligando gli addetti alle statistiche al lavoro straordinario. Matteo, invece, è un difensore e questa, probabilmente, è l'unica diversità che anche l'occhio più attento riesce a cogliere tra i due. Continuano il tour d'incontri, prima però si preoccupano che le rispettive maglie siano state lavate. Il loro rapporto andrebbe mostrato a tutti coloro che per un motivo o per l'altro hanno smarrito la passione per lo sport. Sempre uniti, sin da piccoli, con in testa lo stesso obiettivo. Gli innumerevoli viaggi da Cerchio - un paesino abruzzese di circa 1800 abitanti - di papà Tonino e mamma Emilia solo per vedere i due figli giocare allo stadio. Daniel e Matteo, oggi unici fratelli riuniti in una squadra di Serie A, hanno condiviso le giovanili a Pescara, poi hanno preso strade diverse. Nel 2013 il pallone li ha rivoluti insieme a Frosinone, nella squadra di Roberto Stellone. Lì è cominciata l'apoteosi con la doppia promozione - in due anni - dalla Lega Pro alla Serie A, la prima della storia.
La matematica è arrivata nella sfida casalinga contro il Crotone. Cos’è successo al triplice fischio?
Daniel: «Poco prima che finisse la partita ho guardato Matteo, dicendogli che ci saremmo visti dentro gli spogliatoi per evitare l’invasione. Ricordo che siamo scappati entrambi lasciandoci andare a un lunghissimo abbraccio. Una gioia immensa, un sogno che si è finalmente realizzato».
Matteo: «Faccio ancora fatica a comprendere, difficilmente andrà via l’emozione del passaggio in Serie A. Era arrivato il momento in cui nessuno dei due ci sperava, per età e carriera calcistica, ora invece cerchiamo di vivere tutta questa situazione con assoluta serenità. Certo: incrociare i giocatori della Roma nel sottopassaggio non capita tutti i giorni».
Come non capita tutti i giorni il doppio salto di categoria.
Daniel: «È stato qualcosa di non preventivabile, anche se in Lega Pro l’obiettivo principale era quello di vincere il campionato. E sai che non è sempre facile mantenere le aspettative, però siamo stati nelle prime posizioni dalla prima all’ultima giornata. È arrivata la sconfitta cocente di Perugia – scontro diretto, se fosse andata in maniera diversa avremmo conquistato direttamente la B – che ci ha mandato ai playoff. Siamo riusciti a battere Salernitana, Pisa e Lecce: per me la vera impresa dei due anni è stata questa, perché qualsiasi squadra avrebbe subito un contraccolpo psicologico. La promozione dello scorso anno è andata via in modo più tranquillo, nel senso che non partivamo da favoriti e alla fine eccoci qui».
Le parole di Lotito («Il Frosinone in A non vale un c..») hanno giocato a vostro favore?
Daniel: «È un grande conoscitore di calcio. Direi che è stato un profeta».
Matteo: «Personalmente non mi hanno toccato più di tanto perché sono cose che ha detto lui, ma che pensano un po’ tutti. Ovvio, non è stato un gentiluomo e da lì abbiamo capito che potevamo dar fastidio a molti, trovando quella spinta in più che ci ha portati dove siamo adesso».
Avete organizzato una festa in famiglia?
Daniel: «Certo, ci sembrava il minimo. Ne abbiamo approfittato per unire un po’ di cose, compreso il compleanno di papà. Abbiamo fatto sì che ci fossero tutti i parenti. Stando stretti, eravamo circa una novantina».
Quanti?
Matteo: «Hai capito bene. Già dalla parte di mamma sono sette fratelli. Non è stato semplice  riuscire a trovare una data utile a tutti».
Cosa vuol dire avere un fratello che gioca nella tua stessa squadra?
Daniel: «È difficile perché, al di là del fatto che ci si capisca con uno sguardo, le emozioni – sia in positivo che in negativo – sono sempre amplificate. Quando le cose vanno bene per uno ma non vanno bene per l’altro, non c’è felicità nell’affrontare la settimana. Però, dico la verità, vincere due campionati con accanto la persona che ami di più è qualcosa di impagabile. Il nostro è un rapporto talmente stretto che potremmo sfidare chiunque».
Matteo: «È un privilegio che soltanto poche persone possono provare, è un qualcosa di unico. Ci diamo forza a vicenda, viviamo nelle stesse impressioni, è una vera e propria favola: due fratelli di un piccolissimo paese abruzzese giunti in A».
Nell’estate del 2013 il Frosinone acquista Daniel e qualche settimana dopo Matteo. Salti di gioia da parte dei vostri genitori?
Daniel: «Contentissimi, era la situazione migliore che si potesse verificare. Hanno preso due piccioni con una fava perché non si dovevano più dividere per seguirci durante le partite. Ora hanno anche il posto riservato in tribuna».
E prima come si regolavano?
Matteo: «Dipendeva tutto dalla lontananza da casa, a volte però capitava di far quadrare tutti e due gli impegni. Nel senso che io potevo giocare il sabato e magari Daniel la domenica. Era un bel tour de force, ma per loro ne valeva sempre la pena».
Vivete insieme?
Daniel: «Ora non più, stiamo con le nostre rispettive ragazze. Il primo anno abbiamo diviso casa. Com’è andata? Bene, siamo saliti in Serie B (guarda il fratello e scoppia a ridere, ndr). No, dai, pensavo di dover affrontare più problemi perché ognuno viveva per i fatti propri da diverso tempo. Non è una passeggiata ritrovarsi, con il proprio fratello, a 26-27 anni. Invece è andata alla grande».
Matteo: «Quando le ragazze ci hanno chiesto di andare a convivere, non volevamo separarci. Ma è un passo che prima o poi va fatto».
Terminati gli allenamenti e le partite, uscite insieme?
Daniel: «Sì, abbiamo le stesse abitudini. Stiamo a 800 metri di distanza e ci troviamo anche a piedi. Capita di andare spesso fuori a mangiare una pizza. Chiaramente non tutte le sere. A volte preferiamo stare a casa da soli con le nostre dolci metà e riposarci».
Daniel, il miglior pregio e il peggior difetto di Matteo?
Daniel: «La sua qualità più importante è senza dubbio la testa, la concentrazione. Raramente si sbaglia sulle persone, riesce a inquadrarle in un attimo. È una grande dote, da apprezzare sia sul campo che fuori. Ha anche un’intelligenza tattica superiore alla norma, che magari sopperisce ad alcune lacune atletiche che può avere nei confronti di altri atleti. Il peggior difetto? Può essere lo stesso. No, scherzo. Forse pensa troppo, in certi contesti dovrebbe lasciarsi andare maggiormente».
Matteo: «Io penso troppo? Senti chi parla!».
Daniel: «Eh, lo so. Siamo uguali. Però dovrebbe, per quanto possibile, farsi scivolare le cose di dosso. Ma questa è una caratteristica familiare che purtroppo manca».
Matteo, il miglior pregio e il peggior difetto di Daniel?
Matteo: «La tenacia. Ottiene sempre ciò che vuole. Ha conseguito gli studi con grande voglia (è laureato in scienze motorie, ndr), qualità che io non ho avuto. È brillante, anche se l’essere troppo brillanti talvolta può essere un limite. E poi è permaloso, molto più permaloso di me. Ecco, diciamo le cose come stanno!».
Quando è cominciata la vostra storia con il pallone?
Daniel: «Da piccoli. Papà ci regalò una porta da calcetto che piazzammo davanti casa e da lì ore e ore trascorse cercando di far gol. Chi si stancava? E se faceva troppo freddo, subito dentro a giocare con la palletta di spugna. Non abbiamo avuto una scuola calcio. Ora capita di vedere alcuni ragazzini che le frequentano: indossano le scarpe gialle e non sanno neanche camminare. Pensano di essere già arrivati. Di palloni e giocatori ne ho visti passare tanti, ma per sfondare in questo mestiere ci vogliono tante cose. Una delle nostre fortune è stata quella di crescere con Di Mascio (all’epoca responsabile del settore giovanile a Pescara, ndr), il quale ci ha tenuti con i piedi per terra. Comunque non si può capire quello che sta realmente succedendo fino a quando non entri in campo per la prima volta da professionista».
I genitori sono sempre stati d’accordo? Di solito spingono per la carriera universitaria.
Matteo: «Sì, ci hanno appoggiato. Soprattutto papà, grande tifoso milanista, di calcio e di tutte le partite del mondo. È un uomo pieno di passione. Siamo diventati quello che voleva diventare lui e ce l’abbiamo fatta».
Daniel: «Il tifo di mamma invece deriva da papà, guarda tutte le partite e non utilizza mai le parole fuori posto. La discrezione è una delle loro più grandi qualità, li abbiamo educati anche noi. Non si permettono di rivolgere dalla tribuna un qualcosa di offensivo a un altro giocatore. È probabile che abbiano il loro pensiero, ma se lo tengono stretto. Provo fastidio nei confronti di chi, allo stadio, critica al primo errore».
Ma a tavola con loro si parla di calcio o di altro?
Daniel: «I pranzi e le cene a Cerchio racchiudono il momento del racconto e dello sfogo. Quello che magari per telefono – ora che siamo diventati più grandi – eviti di dire per non destare facili preoccupazioni. Perché poi, sai, anche i genitori si caricano delle tue inquietudini. Spesso diciamo che va tutto bene, anche quando tutto bene non va. Ma, al di là di tutto, il calcio la fa da padrone».
Daniel è dell’85, Matteo dell’88. Vi siete mai incrociati a scuola?
Matteo: «Sì, abbiamo frequentato lo stesso istituto. Tu (si gira verso Daniel con lo sguardo corrucciato, ndr) facevi il quinto e io il secondo?».
Daniel: «No, tu facevi il primo e io il quarto! Niente partite di calcio, eravamo già nelle giovanili del Pescara».
Gli amici di Cerchio chi preferiscono?
Daniel: «Non abbiamo la stessa comitiva, in paese non usciamo spesso insieme. Forse Luca è l’unico anello».
Matteo: «Io ho la mia combriccola che tifa per me!».
I modelli ai quali vi ispirate?
Daniel: «Van Basten. Ho iniziato la ‘pallonite’ acuta durante quegli anni, conosco i gol a memoria, ho visto cassette e tutto l’inimmaginabile. Il mio saltello prima del rigore è in suo onore, anche se io ne faccio due e non ho ancora capito il perché».
Matteo: «Maldini mi ha accompagnato sin da quando sono nato e non si è più fermato. Diciamo che è stata una carriera un po’ lunga. Che campione».
Gli avversari che vi hanno impressionato maggiormente?
Daniel: «Se devo fare un nome, tra quelli dello scorso anno dico Spolli. È evidente che avesse già giocato in una categoria superiore: fisicamente è il top. A parte i nostri difensori, che sono forti. Lo so per certo perché li incontro ogni settimana in allenamento».
Matteo: «Uno duro da affrontare è stato Pinilla, ma il meglio deve ancora arrivare».
Siete riusciti ad andare in gol nella stessa partita?
Matteo: «Frosinone-Lecce dell’8 dicembre 2013. In quell’occasione non c’erano i nostri genitori, forse è stata l’unica che si sono persi. Meglio così, chissà se avrebbero retto all’emozione. Daniel ha fatto doppietta, io la rete del 3-1».
Daniel: «È stata la sfida che ci ha proiettato al secondo posto, alla caccia del Perugia. L’allenatore dei salentini era Lerda, che a Pescara mi aveva messo fuori rosa. Una piccola rivincita».
In futuro la voglia è quella di continuare insieme?
Matteo: «Certo, ci siamo impegnati per creare il quadretto familiare...»
E i vostri figli, un giorno, cosa sentiranno dai loro genitori?
Daniel: «Intanto compriamo una decina di copie a testa del giornale, tra qualche anno quest’intervista varrà un bel gruzzoletto. Adesso la viviamo, sperando di dover raccontare tante altre cose. Questo vuol dire che siamo solo all’inizio».
Va bene, ragazzi, abbiamo finito.
Daniel: «Aspetta, come fai a distinguere la mia voce dalla sua? Abbiamo uguale anche quella!».
  @damorirne Guerin Sportivo (novembre 2015)

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