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Il momento di Spagnolo

Il momento di Spagnolo

Le amichevoli giocate troppo bene, le ragazze che si fermano e l'epopea di Caserta

Stefano Olivari

21.08.2023 16:41

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Battendo la Nuova Zelanda a Shenzen gli azzurri di Pozzecco hanno concluso imbattuti il loro ciclo di amichevoli premondiali, sette vittorie su sette partite, e la cosa dispiace soltanto a chi è attaccato al mito degli italiani che danno il meglio quando sono spalle al muro. Da venerdì, alle 10 ora italiana contro l’Angola, si farà sul serio, in una competizione che viste le tante assenze consente di sognare le Olimpiadi di Parigi più di quanto consentano i tornei preolimpici. Anche nell’ultima partita è piaciuto tantissimo Matteo Spagnolo, che da possibile taglio (prima del saluto di Mannion se ne parlava) è diventato il playmaker più caldo del gruppo, più del pozzecchiano Spissu e di un Pajola che dopo qualche stagione a metà del guado è ormai quasi uno specialista difensivo.

Dopo l’argento dei ragazzi un grande segnale di vita delle ragazze allenate da Giovanni Lucchesi, con l’Under 16 di bronzo nel suo europeo ed Emma Giacchetti inserita nel primo quintetto della manifestazione e quindi considerata miglior playmaker d’Europa nella sua classe di età. La pallacanestro femminile italiana impone una riflessione, visti gli ottimi risultati della nazionali giovanili (Under 20 e Under 18 campioni d’Europa 4 anni fa, la stessa Under 16 spesso ben piazzata e campione 2018, con Caterina Gilli MVP) ed una nazionale maggiore che non arriva fra le prime 4 del continente da quasi 30 anni, dai tempi di Riccardo Sales e Catarina Pollini. Perché questa clamorosa differenza di rendimento? Domanda che ha cittadinanza, visto che l’Italia maschile non è fra le prime 4 d’Europa dal 2003, ma nel frattempo a livello giovanile ha fatto molto meno delle ragazze. Quando non si sa cosa dire si dice che è un problema culturale, certo è che tutte sembrano peggiori delle loro versioni di qualche anno fa, a partire dalla Zandalasini. 

Al di là dei discorsi tecnici, la prima cosa che manca alla pallacanestro italiana è destare interesse nel pubblico generalista-calciomane, quello che si sveglia per Tomba o la Pellegrini ma non ha la minima idea di chi sia Fontecchio. Per questo operazioni come ‘Scugnizzi per sempre’, la docuserie da stasera su Rai 2 incentrata sull’epopea di Caserta, culminata con lo scudetto 1990-91, vanno viste con simpatia al di là di quella retorica che spesso accompagna imprese compiute da squadre o campioni del Sud Italia. Fra i tanti aspetti positivi di quell’era impostata da Boscia Tanjevic, proseguita con Franco Marcelletti e basata su giocatori iconici come Gentile, Esposito e Dell’Agnello, ce n’è uno che ci ha sempre addolorato e cioè che nella squadra dello scudetto non ci fosse Oscar, andato via proprio nell’estate 1990 dopo 8 stagioni memorabili. Un addio maturato dopo l’ennesima impresa soltanto sfiorata, con l’allora Phonola Caserta sconfitta nelle semifinali dei playoff dalla Scavolini Pesaro, alla ‘bella’ (fino alla finale si giocava al meglio delle 3 partite, bei tempi), nonostante i 37 punti di un Oscar che tirava con gli avversari attaccati alle braccia e come tutti i grandi realizzatori dell’epoca era meno tutelato di quelli di oggi (che paradossalmente non esistono quasi più). Come spesso accade, al più forte di una squadra che perde si attacca l’etichetta di perdente, e così Caserta decise di cambiare stranieri: via Oscar e Glouchkov, dentro due americani con caratteristiche molto diverse come Tellis Frank e soprattutto Charles Shackleford. Con loro, e con Oscar a Pavia, sarebbe arrivato uno scudetto che fece piangere Oscar e non di gioia.

stefano@indiscreto.net

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