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Delio Rossi: processato in tv

Redazione

04.05.2012 ( Aggiornata il 04.05.2012 10:40 )

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Quando si dice che in una squadra si sente la mano dell’allenatore. Facciamo un po’ di ironia anche perché non ne possiamo più dei toni tra lo scandalizzato, il moralistico e apocalittico con cui avete sentito commentare questa storia di Delio Rossi. Che sia chiaro, è una storia brutta, bruttissima, e bene ha fatto la Fiorentina a cacciarlo. Non tanto per la sceneggiata in sé, quanto per il fatto che è accaduta davanti al pubblico. E per pubblico intendiamo non tanto i 20mila scarsi allo stadio, ma gli abbonati di Sky e Mediaset e i milioni che hanno visto e rivisto la scena su Internet. Solo su Youtube abbiamo fatto un calcolo rapido sono stati in 3 milioni (al momento in cui scriviamo) a vedere i vari filmati dell’episodio. Ma ecco il punto, cosa c’è di riprovevole in quelle immagini? Che siano pubbliche. Suvvia, cose così sono successe migliaia di volte nella storia del calcio (Lippi con Vieri, Ferguson con Beckham, per dire le più note), ma nelle segrete stanze, cioè nello spogliatoio. Perché lo spogliatoio, lo diciamo a beneficio degli adolescenti che stanno crescendo con Sky, non è quel posto dove i calciatori seminudi ascoltano la musica o si sistemano un calzettone o fanno ciao ciao alla telecamera. Quella è l’immagine alla camomilla che le tv vi fanno passare perché gli piace dare l’idea che siamo in un bel mondo dove tutti ci vogliamo bene e ci diamo un bacin d’amor. Nello spogliatoio si spiega la tattica, ma anche si urla, si litiga, e poi spesso si fa la pace per fortuna. E le cose ne escono filtrate, sotto forma di pissi pissi che magari sui giornali ci finiscono lo stesso, ma senza immagini sono voci dal sen fuggite, calunnie dei soliti giornalisti pettegoli, senza prove. Tutto questo lo diciamo non per giustificare Delio Rossi coi classici motivetti del “così fan tutti” e dei panni sporchi che si lavano in famiglia. Anzi, forse tutto sommato meglio che la cosa sia successa in pubblico: oportet ut scandala eveniant dicevano i latini, che non vuol dire “è bene che gli scandali avvengano”, ma “è bene che gli scandali si scoprano”. Quello che ci interessa è riflettere su quanto lo sport, e il calcio in particolare per noi calciofili, si stia facendo influenzare e modificare dalla tv, non solo nel calendario, nei suoi ritmi e nel suo svolgimento, ma anche e soprattutto nell’anima. Una delle regole che fa muovere il mondo, nata negli anni Cinquanta e da allora diventata progressivamente più importante, è che una cosa accade solo se la puoi vedere in tv (“quelli che… l’ha detto il telegiornale”, per citare un verso di Jannacci scritto dal magnifico Beppe Viola, chissà se casualmente giornalista sportivo e giornalista televisivo). Ma da un po’ di tempo in qua si sta modificando: non è più la tv in sé, ma una categoria della tv, il reality show. Che è il vero modello culturale (scusate la bestemmia, intendo culturale come stile di vita e di pensiero) dei nostri tempi. Tutto deve succedere davanti a tutti, niente può più essere pensato e meditato, ma va gridato e mostrato, anche se è qualcosa di privato e di personale, anzi soprattutto se lo è. Cos’è stata la scena di mercoledì se non un reality in piena regola? La realtà accadeva in diretta, davanti agli occhi di tutti, e tre minuti dopo era già in giro per il web (che in questo articolo equipariamo alla tv, perché di immagini tv spesso si nutre). Esattamente come altre volte si è assistito in mondovisione a regolamenti di conti solo verbali ma non meno violenti: le ribellioni di Balotelli a Mancini, ai tifosi, a se stesso, il “ma è impazzito?” di Baggio sostituito da Sacchi nel 1994, fino a risalire al vaffa di Chinaglia a Valcareggi del 1974, il capostipite di tutto. Qualcuno dirà che una partita di calcio è per definizione una realtà in divenire, perché ci sono i falli, i gol, le occasioni. Vero. La differenza è che episodi come quello di Delio Rossi e gli altri che abbiamo citato come esempio sono frutto di emotività, cioè sono azioni governate dalle emozioni e non dalla razionalità. Esattamente come le azioni di quella mandria di facoceri che vive autoreclusa davanti alle telecamere nei vari Grandi Fratelli e compagnia orrenda. C’è di più, però: l’emotività non riguarda solo i protagonisti degli episodi in questione, ma anche se non soprattutto chi li guarda. Torniamo indietro di un mesetto: il caso Morosini. L’abbiamo visto tutti annaspare in un angolo del teleschermo, cadere e rialzarsi sempre più penosamente fino a non rialzarsi affatto. Scene che le tv hanno mostrato a raffica, a ciclo continuo, e che i siti web hanno fatto precedere dalla scritta “le immagini che seguono potrebbero urtare la vostra sensibilità”. Che è come dire, per usare una battuta di spirito che gira tra i giornalisti (che sono sempre i più autocritici sulla propria professione, salvo non fare nulla per cambiarla), “sono scene che non vorremmo mai mostrarvi, e proprio per questo ve le mostriamo”. Ecco, succede questa tragedia a favore di telecamera e il calcio si ferma immediatamente. Tutto. Non la serie B, che si capirebbe, non anche la serie A dove in fondo aveva avuto amici e avversari. No, tutto il calcio, fino alla Terza Categoria. Perché? Perché, come l’assalto di Rossi a Liajic, è avvenuto davanti alle telecamere. Quindi è avvenuto, punto e basta. E chiunque se ne sente partecipe, deve esprimere il proprio dolore, magari con le parole più retoriche e banali (non mettiamo in dubbio la sincerità), anche se non lo aveva mai sentito nominare prima di quel giorno. Mentre la morte in campo più tragica del calcio italiano non portò neppure all’interruzione della partita: era il 30 ottobre 1977 quando Renato Curi si accasciò nel cerchio di centrocampo durante un Perugia-Juventus, e mentre si cercava di rianimarlo la partita era andata avanti tranquillamente. O magari non tranquillamente, ma nessuno chiese di fermarla né l’arbitro Menegali ci pensò minimamente. Si fece bene allora? Si fece male? E si fece bene nel 1989 a continuare Bologna-Roma dopo che Manfredonia ebbe un infarto in campo? E in Pescara-Livorno bisognava continuare o no? Non lo sappiamo, su cose del genere probabilmente non esiste una risposta, o non ne esiste una sola. Quello che sappiamo è il motivo per cui a Perugia nel 1977 e a Bologna nel 1989 si agì diversamente che a Pescara nel 2012: non c’erano le telecamere. O anzi c’erano ma poche, e facevano il loro mestiere originario: documentavano i fatti, non li facevano accadere, non li mostravano da otto inquadrature diverse, al rallenty, in loop, moltiplicando l’emotività. Magari in altri tempi, con meno tv, l’aggressione di Delio Rossi sarebbe stata classificata come “folklore” o diventata fonte di pettegolezzi sullo spogliatoio. Così invece ha portato a un esonero (giusto) e a una squalifica (ingiusta perché mite), ma anche a un profluvio di parole, commenti, blob e cliccate che alla fine non ha fatto altro che amplificare il gesto all’infinito. Per condannarlo, magari, ma trasformandolo in caso nazionale o mondiale. La pubblicità, negativa o positiva, è sempre pubblicità. Bene o male purché se ne parli, diceva Oscar Wilde. Uno che va ringraziato per quello che ha scritto e per essere vissuto ben prima della tv. Fosse vivo adesso, avrebbe una telecamera puntata perennemente addosso e probabilmente ci farebbe rivalutare Sgarbi e Corona. Ps: a proposito di tv, vogliamo dire anche che è ridicolo (non usiamo aggettivi peggiori solo per autocensura) che una scena così l'abbia vista il mondo intero ma non quattro ufficiali di gara - di cui uno accanto alle panchine - e che Rossi sia stato squalificato solo con la prova tv? Livio Balestri telecommando@hotmail.it

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