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Redazione

16.09.2010 ( Aggiornata il 16.09.2010 11:55 )

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La stagione è appena cominciata, ma è già tempo di bilanci per i premi individuali. Volendo limitarci alla Spagna, il primo posto di un immaginario Pallone d’Oro degli allenatori andrebbe assegnato a Quique Sánchez Flores, non solo per aver portato una Coppa Uefa e una Supercoppa Europea, ma per aver infuso chiarezza ed ottimismo in un ambiente come quello dell’Atlético Madrid, intrappolato ultimamente in una sorta di autocommiserazione entusiasta. Il profilo di Quique è sempre stato quello di un tecnico molto preparato (grande capacità analitica, uno dei migliori del panorama spagnolo nelle vesti di commentatore televisivo) ma sin troppo rigido. Dopo la gavetta nel settore giovanile del Real Madrid, venne lanciato dal Getafe come primo allenatore emergente di una fortunata serie (Schuster, Laudrup, Míchel). Buon calcio con una neopromossa assoluta, e subito al Valencia. Qui affiora la rigidità di cui sopra: un 4-4-2 a zona impeccabile nell’organizzazione difensiva, ma poche alternative di gioco al contropiede. Poi difficoltà nel rapporto con la dirigenza (nello specifico Amedeo Carboni) e un modello di gioco che pian piano si esaurisce, fino all’esonero. Anche la parentesi al Benfica aveva ribadito certi limiti, ma il punto non è questo. All’Atlético serviva proprio un po’ di rigore, di riferimenti elementari ma chiari. Capire che non va azzardato il fuorigioco quando il rifinitore avversario non si trova pressato, che i due centrali di centrocampo in fase di non possesso non si devono muovere sulla stessa linea se non vogliono farsi tagliare fuori da un solo passaggio, consolidarsi lasciando inviolata la porta per poi provare a prendere più confidenza col pallone. È piaciuta soprattutto la gradualità del lavoro di Quique: ha detto “vediamo quello che ho” senza premere più di tanto per gli acquisti invernali. Non ha usato la retorica del sergente di ferro. E gradualmente ha valorizzato, anzi ri-valorizzato, quello che c’era. Vada come vada, gli si dovrà sempre riconoscere tre intuizioni: due scoperte come il portiere De Gea (sebbene ci sia passato di mezzo un altro talento come Asenjo), e il difensore centrale Domínguez, entrambe simbolo del rilancio operato dalla cantera sotto la gestione di José Maria Amorrortu; e la riesumazione (letteralmente) di un fenomeno come Reyes, mai stato così tanto protagonista e così poco estemporaneo.

(a cura di Valentino Tola)

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