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I Giochi a zero dell'atletica italiana

I Giochi a zero dell'atletica italiana

Redazione

21.08.2016 ( Aggiornata il 21.08.2016 18:57 )

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La disfatta nella maratona, gara in cui l'Italia ha quasi sempre ottenuto piazzamenti dignitosi quando non trionfi come nel 1988 e nel 2004, ha chiuso in maniera emblematica la spedizione dell'atletica azzurra a Rio. La regina degli sport, a cui da sempre è legata l'immagine dei Giochi olimpici, ha proposto i suoi protagonisti in un contesto ambientale davvero triste: sia allo stadio, con larghissimi vuoti anche nelle serate con Bolt, che lungo le strade per marcia e maratona, dove non si pagavano biglietti. Ma non è certo per la mancanza di calore brasiliano che l'Italia dell'atletica ha chiuso i suoi Giochi con zero medaglie, perché per trovare una performance così scadente bisogna tornare indietro di sessant'anni, a Melbourne 1956. Un'altra spedizione con pochi atleti in gara, anche se in quel caso anche per motivi logistici e finanziari. Soltanto le donne sono andate vicino alla zona medaglie: Antonella Palmisano nella marcia, Alessia Trost nel salto in alto e la staffetta 4 per 400, il cui sesto posto ha lasciato qualche rimpianto perché con il record italiano stabilito in batteria si poteva sognare. A dirla tutta i rimpianti ci sono anche nella marcia, perché Eleonora Giorgi era considerabile una outsider per le medaglie ma è incappata in un'altra squalifica, e nell'alto perché l'oro si è vinto a una misura, 1,97, che la Trost di qualche anno fa saltava senza problemi. Doveroso ricordare l'infortunio a Monte Carlo di Gianmarco Tamberi, anche lui possibile medaglia, così come la follia dell'operazione Schwazer, rimane il freddo dato degli zero podi (a medaglia sono andati 43 paesi...), in una spedizione con poca quantità e pochissima qualità (la Grenot finalista nei 400, Giupponi ottavo nella 20 km di marcia), che fra le tante spiegazioni ne ha una di base e una di vertice. Quella di base è fondamentalmente che all'atletica agonistica vera, non quella dei quarantenni, arrivano quasi sempre gli scarti degli altri sport ed è per questo che l'esistenza di un Tamberi ci sembra di per se stessa un miracolo. La spiegazione di vertice è che non si riescono a costruire campioni nemmeno in quelle specialità dove le mitiche strutture, lo stipendio statale e una quantità industriale di allenatori dovrebbero fare la differenza. Possiamo accettare serenamente che eventuali Bolt o Ayana italiani non arrivino all'atletica, ma non che nel giavellotto l'argento sia keniano, il bronzo di Trinidad e che alle qualificazioni abbiano partecipato atleti dello Sri Lanka e delle Figi ma non italiani. twitter @StefanoOlivari

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