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Novanta anni alla Pietrangeli

Novanta anni alla Pietrangeli

Intervista al vincitore di due Roland Garros da giocatore e della storica Coppa Davis 1976 da capitano, in occasione dell'uscita della sua autobiografia...

Stefano Olivari

10.09.2023 ( Aggiornata il 10.09.2023 11:52 )

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Nicola Pietrangeli non ha bisogno di presentazioni e dell’elencazione dei sui tanti trofei, dagli anni Cinquanta è una delle persone più popolari in Italia ben al di là della popolarità del tennis. Ma nonostante questo la sua autobiografia dal titolo Se piove, rimandiamo, appena uscita per Sperling & Kupfer, è ricca di spunti interessanti ed inediti, insieme anche a temi da lui già affrontati in mille interviste: dal rifiuto del professionismo per giocare la Coppa Davis al difficile rapporto con Panatta, dai due Roland Garros vinti alle tante occasioni perse, dalla lotta contro tutta la politica italiana per portare la Nazionale in Cile nel 1976 alla sua passione per il calcio. Novanta anni vissuti intensamente, fra grandi imprese ed errori, sempre con uno sguardo ironico nei confronti della vita. Anni di cui ha parlato anche con il Guerin Sportivo.

Partiamo dall’attualità: cosa pensa Nicola Pietrangeli, che con 164 partite detiene l'imbattibile record mondiale di partite disputate in Coppa Davis, della rinuncia alla Davis da parte di Sinner?

Per me la Davis è sempre stata il massimo, ho rinunciato a diventare professionista proprio per poterla giocare: scendere in campo per il tuo paese è un’emozione che non ha eguali, secondo me anche nel mondo di oggi. Detto questo, se Sinner non è o non si sente nelle condizioni fisiche giuste per giocare la Davis è giusto che rinunci, così come Berrettini. Altro discorso è se uno rinuncia alla Davis e poi in contemporanea o quasi va a giocare un torneo o un’esibizione. In questo caso dovrebbe essere squalificato, ma non mi sembra il caso di Sinner e Berrettini.

Nel libro lei dedica ovviamente molto spazio alla Coppa Davis vinta nel 1976, da capitano di quella indimenticabile squadra. Come mai cita soltanto di sfuggita l’allora presidente federale Paolo Galgani?

Non ho voluto dare spazio a questo signore, che diventò presidente della FIT proprio quell’anno, sfruttando la malattia di Giorgio Neri. Galgani ebbe il coraggio di dire che se fosse diventato presidente federale un po' prima noi in Cile non ci saremmo andati, ma poi i meriti di quel trionfo se li è presi. Invece i meriti furono dei giocatori che vinsero le partite e di Pietrangeli che contro tutti riuscì a portarli in Cile. Non mi sembra che in tanti altri casi ci sia stato un dibattito sulla partecipazione a manifestazioni sportive in paesi sotto una dittatura, mi viene in mente il calcio al Mondiale 1978. C'era un clima assurdo, difficile anche da spiegare. 

Lei spesso parla di Adriano Panatta e del golpe che nel 1978 portò alla sua cacciata dalla squadra di Davis: degli alti e bassi nel vostro rapporto si sa tutto o quasi. Però non cita quasi mai, nemmeno nel libro, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli: come mai?

Be’, Adriano era l’unico il cui parere contasse. In quel momento lui in Italia era il tennis. Se lui avesse detto ‘Scusate, ma con Nicola abbiamo vinto una Davis e in un’altra siamo arrivati in finale: perché cambiare una squadra che vince?’ io sarei rimasto di sicuro. Invece mi convocarono il giorno dopo essersi messi d'accordo in un albergo di Firenze, mettendomi di fronte al fatto compiuto. Gli altri sono andati dietro a Panatta, certo non mi ha fatto piacere ma io umanamente sono rimasto deluso soprattutto da Adriano e non da loro. Devo dire che mi sono indifferenti e non da oggi: quando li incontro li saluto per educazione, ma finisce lì.

 Ma è vero che Panatta poi le ha chiesto scusa?

È vero, anche se le scuse sono arrivate 5 anni dopo quello che io considero un suo tradimento e anche se lui dice di non avermele mai fatte. Con lui, che conosco da quando è nato, figlio del custode del Tennis Club Parioli dove giocavo, i rapporti erano diversi ed è logico che io ci sia rimasto male, anche per le modalità. Senza contare che il mio successore fu Bitti Bergamo, cioè un suo amico. Con Panatta non c'era mai stata una vera rivalità da giocatori, io avevo 37 anni quando lui ne aveva 20, e nella squadra di Davis le cose avevano funzionato benissimo. Con gli altri è stato diverso: Zugarelli lo incontro spesso al Foro Italico, dove insegna, Barazzutti ogni tanto lo incrocio, mi dicono che stia scalando la federazione ma non lo so, Bertolucci lo ascolto come commentatore televisivo. A distanza di tanti anni bisogna andare avanti, certo non siamo amici ma anche Panatta e Barazzutti non è che lo fossero né che lo siano, al di là del documentario 'Una squadra'.

Lei ha giocato nelle giovanili della Lazio e a 40 anni si allenava con la Lazio di Maestrelli e Chinaglia senza sfigurare: è pentito, dal punto di vista finanziario o anche soltanto sportivo, di avere scelto il tennis?

Assolutamente no e non soltanto perché la Lazio mi voleva dare in prestito, non mi ricordo se alla Viterbese o alla Ternana. Per me è stata una scelta di vita: il tennis è più vicino al mio carattere, visto che non mi è mai piaciuto avere un padrone. Poi nella vita mi è capitato di lavorare per altri, ma un conto è farlo scegliendo di volta in volta e un altro è farlo in un’organizzazione piena di obblighi. Quanto ai soldi, negli anni Cinquanta ce n’erano pochi sia nel calcio sia nel tennis e quindi non sono stati decisivi. Oggi magari è diverso, un calciatore mediocre guadagna molto di più di un tennista bravo, ma sono convinto che sceglierei sempre il tennis pur amando il calcio. Certo è curioso che molti tennisti siano attratti dal calcio e molti calciatori dal tennis: la mia spiegazione è che ai tennisti manchi a volte avere dei compagni di squadra con cui condividere gioie e dolori, mentre ai calciatori manca di essere liberi e di dipendere soltanto da se stessi.

Come mai nel tennis maschile italiano di oggi ci sono così tanti giocatori forti e in quello femminile no, dopo gli anni di Schiavone, Pennetta, Vinci ed Errani?

Ci possono essere meccanismi di emulazione, nel senso che la presenza di un campione spinge chi sta dietro a migliorarsi. Ma in realtà credo sia un caso: i campioni, quelli che potenzialmente possono fare strada nei tornei dello Slam, non si possono costruire. Una federazione può lavorare sui giovani e sul livello medio, ma la nascita o l’esplosione dei campioni è spesso un caso, a maggior ragione in uno sport individuale.

stefano@indiscreto.net

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