In tempo di Olimpiadi &egrave; impossibile non pensare a intervistare ancora uno degli atleti che, pi&ugrave; di altri, della massima manifestazione sportiva mondiale ha fatto un simbolo della sua carriera. Stiamo parlando di Pietro Mennea, ribattezzato la Freccia del Sud, che, tra il 1972 e il 1988, ha partecipato a ben cinque Olimpiadi nelle quali ha dato al mondo l&rsquo;immagine di un italiano per molti versi atipico, lontano dallo stereotipo del latin lover dedito pi&ugrave; ai piaceri che sa offrire la nostra terra che ai doveri che impone la ricerca dell&rsquo;affermazione professionale e del successo. Oro olimpico a Mosca nel 1980, detentore del record del mondo sui 200 metri dal 1979 al 1996 (record che resiste tutt&rsquo;oggi come miglior tempo assoluto in ambito europeo), Mennea &egrave; stato l&rsquo;emblema della passione incondizionata, quasi ascetica, per l&rsquo;atletica e per l&rsquo;allenamento che si rende necessario per ottenere risultati di livello assoluto. Immaginiamo di conversarci oggi per riproporre i principi sui quali ha impostato la sua vita anche al di fuori della pista sulla quale ha bruciato decine di avversari.&nbsp; &nbsp;&nbsp;  Ciao Pietro, quando capisti che la velocit&agrave; avrebbe fatto sempre parte della tua vita? &laquo;Devo dire che gi&agrave; da ragazzino avevo compreso di avere delle qualit&agrave; fuori dalla media. E lo avevano intuito anche i miei amici, i miei compagni, chi mi conosceva. A volte mi chiamavano addirittura a tarda sera per chiedermi di raggiungerli sul viale di Barletta per sfidare le macchine di grossa cilindrata sui 50 metri. Alle undici, a mezzanotte: &rdquo;Vieni, &egrave; arrivata una Porsche da Brescia, ti vuole sfidare&rdquo;. Io magari stavo gi&agrave; dormendo, avevo un&rsquo;interrogazione il giorno dopo. Ma andavo lo stesso e vincevo: mi premiavano con 500 lire. Il confronto coi motori l&rsquo;ho sempre sostenuto: quando mi allenavo con Vittori lui si metteva in Vespa e io lo inseguivo. Quando gli saltava la marcia lo superavo anche&hellip;&raquo;  Gi&agrave;, Vittori: un rapporto controverso il vostro. &laquo;Eravamo due personalit&agrave; spiccate, due uomini che amavano il loro lavoro, con le proprie idee: ambiziosi, orgogliosi, spigolosi. Soprattutto persone di poche parole. Quand&rsquo;&egrave; cos&igrave; &egrave; inevitabile che si abbiano degli attriti. Per&ograve; il nostro &egrave; stato un rapporto proficuo, che ha portato risultati incredibili, raggiunti proprio grazie all&rsquo;interpretazione simile che avevamo della nostra professione: dare il massimo fino allo sfinimento. Lui diceva di aver inventato i metodi di allenamento che mi hanno fatto progredire: ma se non c&rsquo;erano il mio cervello, il mio carattere, le mie gambe, certi risultati non sarebbero mai arrivati&raquo;.  Com&rsquo;erano i tuoi allenamenti? &laquo;Lavoravo tanto. Una volta partecipai a un convegno scientifico dove feci vedere come mi allenavo: rimasero tutti impressionati, qualcuno addirittura sosteneva che allenandosi in quel modo si poteva morire. Io gli dissi che ero assolutamente vivo e continuavo a gestirmi in quel modo. Un&rsquo;altra volta feci vedere a Steve Williams il mio programma di allenamento. Lui ci dette un&rsquo;occhiata e poi comment&ograve;: &rdquo;Mi sembra perfetto da distribuire lungo l&rsquo;arco della settimana&rdquo;. Gli risposi: &rdquo;Steve, guarda che io questi carichi li faccio in un giorno&hellip;&rdquo;&raquo;.  Quanto ti allenavi mediamente? &laquo;5-6 ore al giorno per 350 giorni l&rsquo;anno. La fatica non mi ha mai spaventato, anzi: se avessi potuto tornare indietro mi sarei allenato anche 8 ore, magari di pi&ugrave;: perch&eacute; quello &egrave; il segreto per ottenere il massimo&raquo;.  Perch&eacute; amavi cos&igrave; tanto la fatica? &laquo;Perch&eacute; senza lavorare duramente non si arriva da nessuna parte, in nessun campo della vita, che sia lo sport o un lavoro &ldquo;normale&rdquo;. La fatica &egrave; una strada senza scorciatoie ma, se la segui, hai la certezza di raggiungere un risultato prima o poi. Per non parlare della longevit&agrave; agonistica che mi ha concesso: mai avuto uno strappo muscolare, mai saltato un evento importante&raquo;.  Per sostenere quei ritmi che tipo di alimentazione seguivi? &laquo;Quando feci il record italiano allievi a Salerno nel 1969, a mezzogiorno avevo mandato gi&ugrave; tre piatti di pasta al forno! Quando ho fatto il record di 19&rsquo;&rsquo;72 a Citt&agrave; del Messico, per venti giorni mangiai solo pasta al pomodoro, parmigiano, carne e acqua minerale. Due episodi che raccontai una volta a un convegno di nutrizionisti dello sport che, dopo avermi accolto con tutti gli onori, dopo il mio intervento non mi salutavano pi&ugrave;&hellip; Puoi seguire la migliore dieta del mondo ma se non hai qualcosa dentro non ottieni i risultati che ho avuto io&raquo;.  Perch&eacute; nello sport moderno, nell&rsquo;atletica in particolare, si &egrave; fatto spesso ricorso al doping? &laquo;Posso dare un punto di vista da osservatore esterno perch&eacute; il mio unico doping erano gli allenamenti che cambiavano in continuazione. Ripeto: se oggi mettessi su internet una delle mie sedute la gente si spaventerebbe. Credo che sia un discorso legato ai valori: oggi lo sport guarda soprattutto allo spettacolo, all&rsquo;incremento dei fatturati. Ma se non accompagniamo questo processo con l&rsquo;attenzione ai valori giusti, non c&rsquo;&egrave; crescita n&eacute; innovazione. Senza la loro presenza, tutto il mondo dello sport cade. La sua essenza &egrave; vincere nel rispetto delle regole: se non si applica questo principio fondamentale si &egrave; poi &egrave; destinati a crollare, a venire meno sia come singoli che come movimento. Il doping &egrave; una scorciatoia per arrivare prima e con meno fatica a un risultato che spesso va oltre il potenziale del fisico umano. Concettualmente &egrave; l&rsquo;antitesi dello sport&raquo;.   Un messaggio rivolto soprattutto ai giovani? &laquo;Certamente, perch&eacute; i giovani sono il futuro della societ&agrave; e quindi la speranza di un mondo migliore. Loro, che sono l&rsquo;elemento costitutivo principale di ogni attivit&agrave; agonistica, devono essere convinti che, nella vita come nello sport, non bisogna essere perfetti ma, pi&ugrave; semplicemente, dare il meglio di se stessi attraverso l&rsquo;onest&agrave;, il lavoro e il rispetto della verit&agrave;&raquo;.  Dietro al ricorso alle pratiche del doping pu&ograve; esserci anche la paura, il rifiuto di fallire? &laquo;L&rsquo;interpretazione che si d&agrave; al fallimento, inteso come non raggiungimento di un obiettivo, &egrave; molto negativa e sbagliata: il fallimento &egrave; un&rsquo;esperienza dalla quale bisogna trarre elementi positivi. Ricordo ancora la mia partecipazione alle Olimpiadi di Montreal nel 1976: l&rsquo;anno prima, tra Giochi del Mediterraneo e Universiadi, avevo vinto quattro ori e un argento. Ovvio che mi approcciassi all&rsquo;Olimpiade con l&rsquo;aspettativa di salire sul podio, che peraltro avevo gi&agrave; raggiunto con un bronzo nei 200 metri a Monaco nel 1972. Purtroppo, invece, arrivai quarto nei 200 e sesto con la staffetta 4x100. Io considerai un fallimento quei risultati ma in quel fallimento riuscii a trovare la forza, la rabbia e l&rsquo;energia per ottenere i migliori frutti della mia carriera nel quadriennio successivo, che mi port&ograve; ai due ori europei del 1978 (100 e 200 metri, ndr), al record di Citt&agrave; del Messico e alla vittoria di Mosca sui 200 nel 1980. Esempio migliore di come vada vissuto un fallimento non potrei dartelo: deve essere un passaggio di crescita&raquo;.&nbsp;&nbsp;   Vorrei chiudere con una domanda che ti avvicina allo sport italiano pi&ugrave; popolare, il calcio: &egrave; vero che sei stato un idolo di Jos&egrave; Mourinho? &laquo;Penso di s&igrave; (sorride, ndr). Un giorno mi telefon&ograve; e mi disse: &rdquo;Sono Jos&eacute; e sono cresciuto ammirandoti. E sai perch&eacute;? Nel &rsquo;74, quando tu hai vinto i 200 agli Europei, i miei mi regalarono un libro su di te&rdquo;. Da quella telefonata nacque un bel rapporto, tanto che qualcuno ha anche sostenuto che io sia stato l&rsquo;unico vero amico che lui abbia avuto qui in Italia. E&rsquo; uno che studia e lavora molto. In questo ci siamo assomigliati&raquo;. 

<p>Torna la nostra rubrica in cui immaginiamo di poter intervistare i campioni del passato che non ci sono pi&ugrave;. Il protagonista di questo appuntamento &egrave; la &quot;Freccia del Sud&quot;, uno dei pi&ugrave; grandi atleti italiani di sempre</p> 

L&#39;intervista impossibile: Pietro Mennea

Il buon Mondiale che ha disputato Filippo Tortu, a Londra eliminato con onore nelle semifinali dei 200 metri, fa sognare un'atletica italiana affamata di medaglie o anche soltanto di personaggi in cui credere. In quella che rimane una delle specialit&agrave; pi&ugrave; seguite i miti rimangono ovviamente gli ori olimpici Livio Berruti, che Tortu ha fra l'altro conosciuto, e Pietro Mennea. Un Mennea che proprio il 10 agosto 1987, trent'anni fa esatti, fece il suo secondo rientro in pista. Con obbiettivi diversi rispetto al primo, avendo ormai 35 anni, ma comunque con tante speranze e il desiderio di andare a Seul per la sua quinta Olimpiade.  Mennea si era ritirato pochi mesi dopo l'oro di Mosca per gettarsi in un'attivit&agrave; imprenditoriale nel settore automobilistico, per la delusione del professor Vittori ("Ma come, sei l'uomo pi&ugrave; veloce del mondo e ti metti a vendere macchine?") e con pentimento quasi immediato, anche per questioni finanziarie. Il rientro nel 1982 aveva portato poi a eccellenti risultati al Mondiale dell'anno successivo (bronzo nei 200 e storico argento nella 4x100 con Pavoni, Simionato e Tilli) con chiusura onorevole, finale nei 200, ai Giochi di Los Angeles. Il rientro del 1987 era pi&ugrave; una sfida all'et&agrave; che la rincorsa di un risultato, ma questo non toglie che al meeting di Grosseto l'attesa fosse enorme, con tanto di finestra durante il TG1 soltanto per la gara di Mennea. Il cast, da Ribaud (specialista dei 400) a Madonia (pi&ugrave; forte nei 100), non era di primissimo livello per non mettere troppa pressione al vecchio campione, ma il vero avversario era ovviamente l'et&agrave;.  Se il rientro del 1982 era stato in 20"94, questo si concluse in un modesto 21"38. Con l'umiliazione di essere collocato in una sorta di gara B, visto che in quella A del meeting c'erano Piefrancesco Pavoni contro americani di valore, su tutti Calvin Smith. Circa un'ora e un quarto dopo avere vinto i 100 in 10''24, Pavoni vinse i 200 con il personale di 20''38. Ma il personaggio era Mennea, rimasto molto lontano dal 20"70 che sarebbe stato il minimo di partecipazione ai Mondiali di Roma. Una manifestazione che Mennea avrebbe visto da spettatore, cos&igrave; come da spettatore aveva visto la Coppa del Mondo del 1981. Ma era tutt'altro che finito, perch&eacute; il 13 settembre a Padova avrebbe corso in 20"76 e ai Giochi di Seul sarebbe riuscito ad andarci, superando anche il primo turno.

Il secondo rientro di Pietro Mennea

I record dell'atletica leggera stanno per essere azzerati, le voci che giravano da mesi hanno trovato conferma nella proposta della European Athletics (cio&egrave; l'associazione delle federazioni europee di atletica) che ad agosto il consiglio della IAAF riunito a Londra, poco prima dei Mondiali, valuter&agrave; e quasi certamente approver&agrave;. S&igrave;, perch&eacute; il principale sostenitore di questa cancellazione del passato &egrave; proprio Seb Coe, presidente della IAAF che come ex atleta di quel passato fa pienamente parte: il suo fantastico 1'41''73 ottenuto a Firenze nel 1981 &egrave; rimasto record del mondo degli 800 metri per 16 anni, fino a Kipketer. I record non verrebbero tecnicamente cancellati, ma quelli ottenuti prima del 2005 verrebbero eufemisticamente definiti 'storici', 'classici' o qualcosa di simile e affiancati a quelli nuovi.  La logica di questa innovazione &egrave; evidente: rendere possibili nuovi primati in specialit&agrave; dove certi risultati appaiono inavvicinabili, in particolare certi record femminili degli anni Ottanta (Griffith 100 e 200, Koch 400, Kratochvilova 800), ma anche altri pi&ugrave; recenti. Insomma, tante parole contro l'ossessione per i record e poi si pensa solo ai record, con relativi bonus e pagliacciate (anche non omologabili, tipo il tentativo per andare sotto le 2 ore nella maratona all'autodromo di Monza), come se l'atletica attuale fosse tutta pulita e quella vecchia tutta sporca. Il muro del 2005 &egrave; poi collocato in maniera arbitraria, visto che la continua evoluzione delle metodologie antidoping rende ogni anno 'migliore' di quello precedente: una scelta evidentemente fatta per proteggere i record degli atleti ancora in attivit&agrave;, Bolt in testa, quindi spendibili come marketing nel presente.  La follia nella follia &egrave; quella di cancellare le prestazioni di campioni anche al di sopra di ogni sospetto: per noi &egrave; facile citare Pietro Mennea, il cui 19''72 del 1979 nei 200 &egrave; tuttora record europeo, un Mennea che nella sua intera carriera pur ammazzandosi di pesi riusc&igrave; a mettere su soltanto pochi etti di muscolatura. E il suo record europeo gli dovrebbe essere tolto da europei, magari con passaporto tarocco, che in pochi mesi sono passati da rachitici a culturisti? C'&egrave; poi da sfatare un luogo comune: tolte quelle poche prestazioni femminili anni Ottanta, quasi tutti i record mondiali e ancora di pi&ugrave; quelli nazionali hanno continuato a migliorare. Non si capisce perch&eacute; il 29'17''45 di Almaz Ayana nei 10.000 olimpici di Rio debba essere di base pi&ugrave; pulito del 30'13''74 di Ingrid Kristiansen, record mondiale ottenuto 30 anni prima, o del 29'31''78 di Wang Junxia, record che resisteva dal 1993. In altre parole: come fanno i 'puliti' etiopi ad andare pi&ugrave; forte degli 'sporchi' cinesi?

La cancellazione di Mennea

37 anni non sono una cifra tonda, di quelle che si usano per celebrazioni e operazioni nostalgia, ma lo stato attuale dell'atletica italiana impone di ricordare il suo record del mondo arrivato pi&ugrave; in l&agrave; nel tempo, fino al 1996. Non serve a rimpiangere il passato, ma a ricordare che Pietro Mennea emerse in un contesto in cui la velocit&agrave; gi&agrave; era dominata da Stati Uniti e paesi caraibici, con significative presenze (da Borzov in gi&ugrave;) di campioni dell'Est europeo. Era il 12 settembre 1979, Universiadi di Citt&agrave; del Messico in uno stadio semideserto come spesso capita nelle grandi manifestazioni in paesi calciocentrici (tipo anche il Brasile, come si &egrave; visto...). Il record da battere era il 19''83 di Tommie 'Jet' Smith, ottenuto ai Giochi del 1968 sempre a Citt&agrave; del Messico, impresa in qualche modo oscurata dalle immagini della premiazione con il pugno alzato (tornato di attualit&agrave;, fra l'altro, basti pensare alla prima giornata della NFL). Da ricordare che Mennea, nei 200 gi&agrave; bronzo olimpico a Monaco '72 e campione d'Europa 1974 e 1978, all'epoca aveva 'soltanto' la decima prestazione all time, parlando di cronometraggi elettrici: un 20''11 che non era nemmeno record europeo (detenuto da Borzov con 20''00). Mennea divent&ograve; primatista europeo gi&agrave; in batteria, con 19''96, fatto in ottava corsia, quarta prestazione di sempre. In semifinale il primo assalto al record del mondo, con il 20''04 per le sue ambizioni mezza delusione. Il 12 settembre finalmente il record: il 19''72 tuttora record europeo, con una progressione mostruosa dai 120 ai 160 metri e il secondo classificato, il polacco Duneki, a 20''24, come a rimarcare l'eccezionalit&agrave; dell'impresa. Poco dopo insieme a Lazzer, Caravani e Grazioli ottenne il primato italiano della 4 per 100 con 38''55, settimo tempo all time. Il tutto 8 giorni dopo il 10''01 sui 100 metri che &egrave; tuttora record italiano e in un'epoca in cui gi&agrave; si dava per scontata la superiorit&agrave; degli atleti neri. Insomma, ricordare Mennea e il suo percorso non riguardo soltanto il passato, ma anche il presente. Uno come lui ci manca, ma ancora di pi&ugrave; ci manca uno con la sua mentalit&agrave; e la sua ambizione.  Twitter @StefanoOlivari

Mennea, un 19''72 per il presente

Pietro Mennea &egrave; stato il pi&ugrave; forte sportivo italiano di tutti i tempi? Il dolore per la morte prematura di un uomo al quale molti di noi hanno dedicato tanto tempo e tanti sogni nulla toglie e nulla aggiunge alla grandezza di uno dei pochi campioni capaci di rubare prime pagine al calcio. Anche con imprese o polemiche normali, non necessariamente con il record del mondo in Messico nel 1979 o con l'oro di Mosca 1980. A dirla tutta, il mondo politico e mediatico legato allo sport ha sempre mal sopportato la seriet&agrave; e il perfezionismo di Mennea, al punto che per lui le strade da dirigente nella sua atletica sono sempre state sbarrate. Nonostante le quattro lauree, la competenza e la possibilit&agrave; di trasmettere qualcosa: difficile che Bolt possa spiegarti come si diventa Bolt, Bolt bisogna nascere, pi&ugrave; utile sarebbe stato avere un Mennea a diffondere la cultura del lavoro non con parole retoriche ma con il suo esempio concreto. Ma la classe dirigente delle varie federazioni e del CONI in generale ha criteri di selezione misteriosi, sembra quasi che avere dimostrato qualcosa sul campo sia una colpa. E cos&igrave; nel dopo-atletica, iniziato in seguito al terzo e definitivo ritiro a pochi giorni dai Giochi di Seul 1988 (quinta Olimpiade), il suo impegno &egrave; andato in mille direzioni, dalla politica al calcio passando per l'universit&agrave; e l'impegno sociale, ma mai &egrave; stato utilizzato per la sua disciplina adorata. Emarginato, Mennea, ma non dimenticato. Un po' lo stesso destino del suo pi&ugrave; grande rivale: non Borzov, Quarrie o Wellls, ma Livio Berruti. L'eroe dei 200 dei Giochi di Roma 1960 non poteva essere pi&ugrave; diverso da Mennea: Berruti era l'atletica dilettantistica come spirito (anche se non come impegno), l'atletica ben rappresentata da 'Momenti di gloria', mentre lui era il professionismo e il perfezionismo applicati a mondi che non a caso lo consideravano un alieno. Berruti e Mennea erano fatti per non amarsi e infatti non si sono mai amati: da persone serie non hanno (quasi) mai finto e va detto che l'astio era pi&ugrave; di Mennea verso Berruti (clamoroso quando Mennea e i suoi parenti aggredirono Berruti a causa di un'intervista) che nella direzione opposta. La grandezza di Mennea &egrave; stata alla fine questa, al di l&agrave; dei risultati: essere un grandissimo personaggio, trasversale e seguito anche da chi non sapeva niente di atletica. Quanto al valore assoluto nella storia dello sport italiano, qui i concorrenti non sono Berruti ma campioni che hanno dominato a livello mondiale il loro sport per un decennio: i Coppi, i Tomba, i Valentino Rossi, i Meazza, i Nadi, gli Abbagnale. Mennea &egrave; stato vicino a queste vette, ma non le ha toccate. Questo non toglie che sia stato un mito gi&agrave; da vivo, entrando nell'immaginario popolare come solo i fenomeni sanno fare.

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Il mito di Mennea