        &ldquo;&Egrave; una bandiera/Grande Massimo Carrera&rdquo; cantavano in curva per lui, Massimo Carrera. Il ritmo, quello di &ldquo;Maledetta primavera&rdquo; di Loretta Goggi. E in effetti essere una bandiera non &egrave; facile, ultimo baluardo e primo a metterci la faccia sempre. Carrera lo ha fatto sempre, rispettando la tradizione dei grandi difensori centrali italiani: Bari, Atalanta e Juventus, ma non solo. Poco ricordato, ma con un eccellente palmar&eacute;s.    Le due Juventus di Carrera  Carrera ha giocato in diverse parti d'Italia, mangiando la polvere dei campi di periferia e delle categorie inferiori fino a sollevare, seppur non da assoluto protagonista, la Champions League. Lombardo di quella zona del milanese che guarda verso la bergamasca (Pozzuolo Martesana), Carrera non ha nulla del predestinato, a 21 anni infatti &egrave; ancora in Serie C2, all'Alessandria. Prodotto della Pro Sesto, sono il Pescara e soprattutto il Bari a dargli fiducia. E allora via, dall'altra parte della penisola, per diventare un pilastro della difesa dei pugliesi, inclusa la promozione in Serie A nel 1990. A questo punto pur non essendo un ragazzino &egrave; comunque la Juventus a interessarsi a lui, quando Giovanni Trapattoni torna in panchina e cancella la parentesi di Maifredi, puntando su difensori rocciosi ma al contempo di classe. Con il Trap diventa uno degli intoccabili della retroguardia che vince la Coppa Uefa nel 1993 (titolare come laterale destro in entrambe le finali contro il Borussia Dortmund), fino al 1994 quando con Lippi cambia il panorama. Per Carrera calano i minuti, le presenze per&ograve; rimangono di qualit&agrave; e tra il 1995 e il 1996 arrivano uno scudetto, una Coppa Italia, una Supecoppa Italiana e soprattutto la Champions League: biennio assolutamente indimenticabile, dopo il quale non rimane che la cessione. Anche se i colori bianconeri torneranno nella vita di Carrera. &nbsp;   Idolo a Bergamo e a Mosca A 32 anni Massimo potrebbe sembrare a fine corsa, ma c'&egrave; un'Atalanta di cui diventare nuovo idolo. Ci arriva in punta di piedi, &egrave; chiaramente il leader di una difesa giovane che ha bisogno di esperienza. Saranno sette stagioni indimenticabili nonostante una retrocessione condita per&ograve; da un immediato ritorno in A. Anche qui, sono tante le facce che si incrociano col difensore di Pozzuolo Martesana, nonostante sia Emiliano Mondonico l'allenatore con cui si trova meglio e per pi&ugrave; tempo. Fino al 2003, quindi fino quasi al quarantesimo anno d'et&agrave;, Carrera non molla un colpo totalizzando 242 presenze con la Dea, entrando nella top ten di tutti i tempi del club bergamasco in quanto a partite disputate. Ritiratosi tardissimo (a 44 in C2 con l'Alessandria) per Massimo si apre la via della panchina ed &egrave; la Juventus che si ricorda di nuovo di lui facendone il responsabile delle giovanili. Quando poi arriva Antonio Conte come allenatore Carrera ne diventa il vice, sostituendolo tra l'agosto e l'ottobre 2012 mentre il tecnico salentino &egrave; squalificato per le vicende del Calcioscommesse: in 10 partite Massimo chiude imbattuto, 7 vittorie e 3 pareggi. Da allenatore in compenso si toglier&agrave; delle belle soddisfazioni in Russia, con lo Spartak Mosca: nel 2017 per lui successo in campionato e in Supercoppa.       

Difensore elegante e costante, fu grande con Bari, Atalanta e Juventus. Coi bianconeri fu anche allenatore per qualche tempo in sostituzione di Antonio Conte, squalificato, e trionf&ograve; nel campionato russo con lo Spartak Mosca

Massimo Carrera, la bandiera della difesa

        Oggi lo vedete vice di Massimiliano Allegri alla Juventus, ma Marco Landucci &egrave; stato un portiere che pi&ugrave; anni Ottanta-Novanta non si pu&ograve;: titolare in squadre di medio livello ma dal solidissimo rendimento, tanto da tramandare la sua sapienza anche come allenatore dei portieri. &nbsp; Landucci e il Parma di Sacchi &nbsp; Faccia squadrata, poche parole e molti fatti: Marco Landucci &egrave; un lucchese che a Firenze ha trovato da giocatore almeno la sua seconda patria. Cresciuto nella primavera viola, finisce a Parma nel 1985 e a 22 anni diventa il portiere meno battuto della C-1 con appena 14 gol subiti in 34 partite, roba da saracinesca vera con promozione in B compresa. L'allenatore &egrave; un certo Arrigo Sacchi, abituato a costruire le sue squadre dalle fondamenta, cio&egrave; dalla difesa (qualcuno ha detto Gianluca Signorini? Esatto) e possibilmente da un portiere insuperabile: Landucci lo conosce fin da quando allenava la primavera della Fiorentina campione d'Italia proprio con Marco come numero 1, nel 1982. Un Landucci che comunque &egrave; il precursore di altri grandi portieri sacchiani come Giovanni Galli o Sebastiano Rossi, insomma. Curioso che il vice di Landucci in quel Parma sia Luca Bucci, futuro grande estremo difensore dei ducali e chiamato in nazionale proprio da Sacchi.    La B non se la gode perch&eacute; per lui &egrave; pronto il salto direttamente in Serie A, quando un portiere giovane di C-1 se bravo poteva diventare titolare tra i grandi. L'azzardo calcolato &egrave; del &ldquo;sergente di ferro&rdquo; Eugenio Bersellini, che lo richiama alla Fiorentina. &nbsp; Nazionale sfiorata &nbsp; Inizia per Landucci un quadriennio in cui &egrave; il titolare di una squadra che fatica ad entrare nel circolo delle grandi, anche se la Fiorentina raggiunge la finale di Coppa Uefa del 1990, persa contro la Juventus. E pensare che il suo debutto in maglia viola in Coppa Italia contro la Casertana era coinciso con una sua papera su tiro di Petriello passatogli sotto le gambe. Giovent&ugrave; e bravura comunque lo portano ad essere il terzo &ldquo;incomodo&rdquo; per la nazionale dietro i due mammasantissima Zenga e Tacconi. Per l'Europeo del 1988 a un certo punto rischia la chiamata all'ultimo da parte di Azeglio Vicini per via di un problema urgente capitato al secondo, ma mentre &egrave; in vacanza a Lido di Camaiore a Landucci non rimane che abbandonarsi allo sconforto, visto che Tacconi guarisce e va in Germania Ovest.    Nel 1991 dopo la Fiorentina rimane in Toscana, coraggiosamente scendendo di categoria, nella &ldquo;sua&rdquo; Lucchese con Marcello Lippi in panchina. Grande stagione anche qua, ma la concorrenza altrove &egrave; sempre molto forte. Masticher&agrave; di nuovo la A solo grazie a un Brescia &ldquo;minore&rdquo; prima di accasarsi con l'Avellino in C-1 tra 1994 e 1995, ultimo campionato da protagonista di Landucci decisivo nella finale dei playoff contro il Gualdo. Appesi i guantoni al chiodo diventer&agrave; eccellente allenatore dei portieri alla Fiorentina, al Grosseto e soprattutto al Cagliari, dove inizier&agrave; la sua collaborazione con Massimiliano Allegri, che prosegue ancora oggi alla Juventus non pi&ugrave; solo focalizzata sugli estremi difensori.&nbsp;       

Il toscano fu un eccellente portiere soprattutto con la Fiorentina a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, anche se venne lanciato in C-1 al Parma dal futuro grande tecnico del Milan. Ora &egrave; uno dei collaboratori dell'allenatore della Juventus

Marco Landucci, da Sacchi ad Allegri

        Siamo a met&agrave; del mese di marzo dell&rsquo;anno 1983, ma il rigido inverno non sembra voler lasciare Torino: dopo le prime due settimane di marzo con temperature sopra la media, il giorno 15 i gradi sono tornati a precipitare e il capoluogo piemontese si sveglia sommerso da una leggera coltre bianca. Il freddo inverno che non vuole andarsene &egrave; un po&rsquo; la metafora dell&rsquo;Italia dei primissimi anni Ottanta, sospesa in bilico tra le vecchie ruggini della decade precedente e la nuova ventata edonistica che arriver&agrave; da l&igrave; a poco, con il craxismo. La Juventus, che mercoled&igrave; 16 marzo, &egrave; attesa da un impegnativo ritorno di Coppa Campioni contro i detentori dell&rsquo;Aston Villa &egrave; un po&rsquo; lo specchio di quell&rsquo;Italia che ha una grandissima voglia di cambiare vestito. &nbsp; &nbsp; La nuova Juventus &nbsp; In estate infatti la Vecchia Signora ha deciso di svestire i panni operai degli Anni Settanta per indossare un elegante smoking, grazie agli acquisti (neanche troppo costosi) del francese Michel Platini e del polacco Zbigniew Boniek, che si innestano su un corpo gi&agrave; solido composto da sei campioni del mondo (Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi), pi&ugrave; un campionissimo come Bettega (che campione del mondo non lo &egrave; stato solo a causa di un infortunio) e due volitivi gregari, come solido &ldquo;capitan&rdquo; Furino ed il roccioso stopper Brio. La squadra allenata da Trapattoni ha faticato un po&rsquo; a trovare il giusto assetto tattico nei primi mesi della stagione, in quanto i due stranieri non si erano ancora ambientati in un campionato pieno di trappole tattiche, dove gli equilibri sono sempre fondamentali. Ma un tecnico come Giovanni Trapattoni, da sempre maestro di tattica, dopo un breve periodo di assestamento &egrave; riuscito a trovare l&rsquo;assetto giusto con due semplici mosse: a centrocampo (i maligni sussurrano per volont&agrave; di Platini) viene giubilato il vecchio Furino e al suo posto viene innestato il biondo sammarinese Bonini, un puro portatore d&rsquo;acqua, assai pi&ugrave; fresco e propenso a correre al posto &ldquo;Le Roi Michel&rdquo;.    La seconda mossa riguarda la posizione di Boniek: il polacco, un giocatore letteralmente senza ruolo che in patria fungeva da vero e proprio jolly di centrocampo, viene impiegato inizialmente come tornante di destra (con la maglia numero 7) con Rossi e Bettega di punta. Ma la scelta non funzionava, perch&eacute; Zib&igrave; a destra &egrave; costretto quasi sempre a giocare lungo la linea laterale, quando un purosangue della sua razza aveva bisogno di spazi aperti per galoppare. Cos&igrave;, il Giu&agrave;n, ha la felice intuizione di cambiare il polacco di fascia (assegnandogli la 11) in modo di concedergli la facolt&agrave; di spaziare su tutto il fronte e di duettare pi&ugrave; da vicino con Rossi (numero 9) e Bettega (numero 7). Ne scaturisce una squadra che macina gol e spettacolo e che ha solo la sfortuna di avere davanti in campionato una Roma ancora pi&ugrave; galattica, che a met&agrave; marzo &egrave; tre lunghezze avanti ai bianconeri, che hanno appena strapazzato in casa (4-1) una squadra ostica come l&rsquo;Avellino. In Coppa Campioni, fino a quel momento, la campagna della squadra torinese &egrave; stata quasi perfetta: dopo aver eliminato i modesti danesi dell&rsquo;Hvidovre con un netto 4-7 complessivo ai sedicesimi di finale, negli ottavi la Juve ha prima strappato un importante 1 a 1 sull&rsquo;ostico campo dello Standard Liegi (allenato da un genio della panchina di nome Raymond Goethals) mostrando per lunghi tratti un gioco coraggioso, come raramente mostravano le squadre italiane in trasferta dell&rsquo;epoca. Al ritorno a Torino non c&rsquo;&egrave; stata storia e una doppietta di Pablito Rossi stecchisce i belgi. &nbsp;  &nbsp; La sfida al Villa Park &nbsp; &nbsp; Il 2 marzo arriva per la truppa di Trapattoni l&rsquo;esame pi&ugrave; difficile: la trasferta in programma &egrave; infatti nell&rsquo;uggiosa Birmingham e l&rsquo;avversario &egrave; l&rsquo;Aston Villa campione d&rsquo;Europa in carica. Al Villa Park va in scena una partita spettacolare, uno dei migliori match in trasferta, a livello europeo, della storia bianconera: passano pochi secondi infatti e Bettega tocca per Cabrini, sul cross del terzino Rossi irrompe come un falco regalando il vantaggio. Il gol &egrave; talmente rapido che gli operatori di Telemontecarlo se lo perdono, iniziando la diretta con la Juve gi&agrave; in vantaggio! L&rsquo;Aston Villa replica in modo furibondo, ma gli uomini di Trapattoni non restano asserragliati in area, cercando pi&ugrave; volte il contropiede manovrato. In apertura di ripresa, al 51&rsquo; Cowans trova il pareggio e proprio nel momento di maggior difficolt&agrave; per i bianconeri sale in cattedra monsieur Michel Platini, che inizia letteralmente a dipingere calcio in terra inglese. Cos&igrave;, a sette minuti dalla fine Bettega passa a Platini, che di esterno destro trova un corridoio impossibile per Boniek che calcia un fendente sotto il sette: 2 a 1! Al triplice fischio il Villa Park scoppia in un fragoroso applauso nei confronti della squadra bianconera da parte del pubblico di casa. In questo clima euforico Trapattoni deve smorzare i toni in vista del ritorno: &laquo;Noi giocheremo come se fosse 0-0, perch&eacute; gli inglesi possono ribaltare qualsiasi risultato. Non adotteremo quindi tattiche prudenziali&raquo;. Il fuoriclasse Platini invece &egrave; pi&ugrave; prosaico: &laquo;L&rsquo;importante &egrave; passare il turno anche a costo di giocare male. Non sar&agrave; facile, ma questa Coppa la vogliamo&raquo;. Sul fronte inglese, il tecnico dell&rsquo;Aston Villa Tony Barton, che l&rsquo;anno prima ha vinto il trofeo partendo da viceallenatore, tesse le lodi agli avversari: &laquo;La Juve &egrave; la pi&ugrave; grande squadra d&rsquo;Europa. Se la battiamo stasera, conquisteremo di sicuro la Coppa Campioni perch&eacute; avremo eliminato l&rsquo;avversario pi&ugrave; forte&raquo;. Gary Shaw, dipinto come il &ldquo;bello del calcio inglese&rdquo;, afferma realisticamente: &laquo;Passare il turno sar&agrave; molto difficile, ma se segniamo subito, chiss&agrave;&hellip;&raquo;. &nbsp;  &nbsp; Aston Villa, classicismo inglese &nbsp; Sono le 20.30 di mercoled&igrave; 16 marzo 1984 quando, sotto un cielo plumbeo in cui la pioggia ha sostituito la neve del giorno precedente, la Juventus e l&rsquo;Aston Villa si accingono ad entrare sul terreno dello Stadio Comunale con le loro classiche divise. In tribuna c&rsquo;&egrave; il tutto esaurito, con tanto di incasso record per il calcio italiano (980 milioni di Lire). La squadra di casa scende in campo con la sua formazione tipo conosciuta da tutti gli appassionati sportivi italiani: Zoff; Gentile, Cabrini; Bonini, Brio, Scirea; Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. La squadra di Birmingham invece si schiera con il lungagnone Nigel Spink in porta - ventiquattrenne eroe per caso nella finale contro il Bayern Monaco della stagione precedente. Partito come riserva del pi&ugrave; esperto Jim Rimmer, al 9&rsquo; del primo tempo entra al posto del titolare e si traveste in Superman parando tutti i tentativi a rete dei bavaresi che alla fine soccombono per 1-0 grazie al gol di Withe al 76&rsquo;. In difesa, nella classica linea a quattro tipica del calcio inglese, sulla destra troviamo il giovane Gary Williams (22 anni), prodotto del settore giovanile dei Villains. &Egrave; un classico terzino di scuola britannica, piedi cos&igrave; cos&igrave;, ma grande temperamento e capacit&agrave; di &ldquo;arare&rdquo; la fascia per tutta la gara. Al centro della retroguardia troviamo lo scozzese Ken McNaught, ventottenne leader del reparto. Un difensore possente, ma non troppo veloce che viene affiancato dal connazionale Allan Evans, 26 anni, un ex attaccante riconvertito in stopper. Sulla fascia sinistra agisce infine Colin Gibson, il &ldquo;gemello&rdquo; del terzino destro Williams, sia per et&agrave; (22 anni) che per caratteristiche tattiche, anche se possiede un mancino un pochino pi&ugrave; educato; anche lui &egrave; un prodotto dell&rsquo;Academy del Villa. A centrocampo, da destra verso sinistra nell&rsquo;altrettanto classica linea a quattro, troviamo con il numero 7 Des Bremner, trentenne scozzese dalla grande tempra agonistica capace di svolgere egregiamente le due fasi. Sul centrodestra invece giostra il capitano Dennis Mortimer, anche lui trent&rsquo;anni, totem del centrocampo. &Egrave; un classico tuttofare che gioca soprattutto su linee orizzontali come frangiflutti e metronomo. Al suo fianco, il talento di Gordon Cowans, 24 anni mezzala completa e dai piedi buoni (era perfettamente ambidestro), ancora oggi &egrave; considerato il miglior giocatore che abbia mai vestito la maglia claret and blue. Sulla fascia sinistra Burton deve rinunciare all&rsquo;asso Tony Morley, sostituito dal diciottenne di colore Mark Walters, un&rsquo;aletta guizzante sfornata anch&rsquo;essa dal vivaio Villains. In attacco infine troviamo la classica coppia formata dall&rsquo;ariete (di 188 centimetri) Peter Withe, trentunenne girovago del calcio inglese che a Birmingham ha trovato la sua giusta dimensione, anche perch&eacute; ha segnato il gol decisivo nella finale di Coppa Campioni contro il Bayern con un tap-in da pochi metri che i tifosi dell&rsquo;Aston Villa ricorderanno per sempre. Il suo partner &egrave; il guizzante Gary Shaw, 22 anni, che l&rsquo;anno precedente ha ricevuto il premio Bravo del Guerin Sportivo, riservato al miglior under 23 europeo. L&rsquo;allenatore &egrave; Tony Barton, 55 anni ex vice di Ron Saunders, il tecnico che aveva riportato la vittoria in First Division che mancava dal lontano 1910. Dal febbraio del 1982 Barton &egrave; diventato capo allenatore a tutti gli effetti, riuscendo a compiere un&rsquo;impresa ancora pi&ugrave; grandiosa di quella del suo titolare vincendo, contro ogni pronostico, la Coppa Campioni. Il Villa si schiera cos&igrave; con un 4-4-2 piuttosto classico, che in fase di possesso pu&ograve; trasformarsi in un 4-3-3 date le caratteristiche smaccatamente offensive dell&rsquo;esterno mancino Walters. Trapattoni, per contrastare efficacemente lo schema di gioco avversario, ripropone il 3-4-3 asimmetrico gi&agrave; visto a Birmingham. Scirea agisce da libero staccato, protetto al fianco da Gentile, che agisce in marcatura su Shaw e da Brio che invece si incolla a Withe. Il resto dei giocatori invece &egrave; disposto a zona con Tardelli che prende nella sua zona Walters (con Bonini sempre pronto al raddoppio) e Cabrini che fa lo stesso sulla sinistra. Platini invece agisce sia da centrocampista puro che da rifinitore a seconda delle fasi di gioco, con Boniek pronto a svariare su tutto il fronte offensivo. Le due punte Bettega e Rossi, perfettamente complementari per caratteristiche, non rimangono mai statiche in attacco, arretrando spesso a centrocampo o allargandosi sulle corsie esterne. Giovanni Trapattoni, al suo settimo anno in bianconero, ha quindi realizzato una bella miscela tra la classica anima italianista che prevede grande attenzione alla fase di non possesso con rigide marcature individuali ad una fase offensiva molto fluida, dove i giocatori attaccano senza dare punti di riferimento all&rsquo;avversario. &nbsp;  &nbsp; La cronaca della partita &nbsp; &nbsp; Al primo fischio dell&rsquo;arbitro olandese Keizer, la Juventus parte subito all&rsquo;attacco, mostrando di non volersi assolutamente accontentare dello 0-0: al 2&rsquo; sugli sviluppi di una punizione, Rossi effettua una sponda per Platini, il tiro insidioso del francese viene parato in tuffo di Spink. Un minuto dopo insiste la Juve, ma il cross di Cabrini non trova nessuno a riempire l&rsquo;area di rigore. Al 5&rsquo; Gibson commette un fallaccio su Platini, il direttore di gara per&ograve; redarguisce soltanto verbalmente il giocatore inglese. Un minuto pi&ugrave; tardi la squadra di casa continua a farsi minacciosa: Scirea avanza sino nell&rsquo;area avversaria e, dopo un triangolo con Platini, fa partire un tiro-cross che per&ograve; non trova nessuno. Dopo sei minuti di tregua si rif&agrave; pericolosa la Juve con un&rsquo;azione insistita che si conclude un con tiro di Bettega (leggermente deviato da un difensore dell&rsquo;Aston Villa) che termina alto. Sugli sviluppi del corner successivo i bianconeri trovano il vantaggio: un tiro di Platini, molto potente, ma centrale, non viene trattenuto dal portiere Spink che si fa sfuggire clamorosamente la palla: 1 a 0. La banda del Trap ormai gioca sul velluto. Diciannovesimo minuto: splendido tacco di Bettega per Boniek che si inserisce per vie centrali, il polacco per&ograve; viene anticipato dalla difesa avversaria. Sessanta secondi dopo si fanno pericolosi gli inglesi con un cross di Gibson per Withe, il cui colpo di testa obbliga Zoff a parare in corner. La Vecchia Signora, per&ograve;, &egrave; a dir poco scatenata e regala spettacolo a scena aperta: al 26&rsquo; tacco di Rossi, cross di Platini e difesa inglese che sbroglia affannosamente in corner. Sugli sviluppi del calcio d&rsquo;angolo arriva il raddoppio; scambio corto tra Rossi e Gentile, cross del centravanti e stacco imperioso di Tardelli che manda la palla nell&rsquo;angolino lontano dove Spink non pu&ograve; arrivare: 2-0 meritatissimo per la squadra torinese. Al 34&rsquo; la Juve potrebbe triplicare, Boniek riceve palla da una corta respinta della difesa dei Villains, ma calcia a lato. A sei minuti dal termine della prima frazione si rivede in attacco la squadra di Tony Barton, con un tiraccio alle stelle di Cowans. Finisce cos&igrave; sul 2-0 un primo tempo dominato dalla compagine di Trapattoni. Il secondo atto della sfida inizia ancora nel segno della Juventus: al 49&rsquo; dopo una sgroppata centrale, Boniek sbaglia l&rsquo;assist decisivo verso Rossi. Al 53&rsquo; la Juve va ben due volte vicina al terzo gol: cross di Rossi, tiro di Boniek e respinta di Spink, poi sugli sviluppi dell&rsquo;azione altra palla in mezzo di Cabrini e colpo di testa di Platini che termina fuori. Tre minuti pi&ugrave; tardi il fuoriclasse francese calcia a giro verso la porta del Villa, ma la palla termina fuori. Al 61&rsquo; un tiraccio da lontano di Bremner termina in tribuna: &egrave; l&rsquo;immagine pi&ugrave; iconica di un Aston Villa allo sbaraglio, che due minuti pi&ugrave; tardi rischia di regalare il terzo gol alla Juve, quando un passaggio all&rsquo;indietro, maldestro, di Williams, infatti innesca Boniek che per poco non anticipa Spink in uscita. Al 67&rsquo; contropiede magistrale della Juventus con Scirea che conclude la transizione offensiva con un tiro alto sulla traversa. Un minuto dopo il terzo gol si concretizza: Platini ruba palla ad un disorientato McNaught e di piatto spiazza Spink! Al 75&rsquo; c&rsquo;&egrave; la prima sostituzione in casa bianconera: entra Furino per Brio con Tardelli che passa nel ruolo inedito di stopper. Al 76&rsquo; altra azione insistita della Juve, ma Bettega calcia alto sulla traversa scivolando a terra. A questo punto l&rsquo;Aston Villa prova con generosit&agrave; a cercare il punto della bandiera: al 78&rsquo; un tiro a giro di Cowans finisce alto sulla traversa. Passano due minuti ed il numero dieci del Villa si rif&agrave; vivo con un&rsquo;altra conclusione, questa volta, centrale, che viene parata da Zoff. All&rsquo;81&rsquo; la squadra inglese trova il punto dell&rsquo;onore: cross liftato di Gibson e colpo di testa di Withe, nell&rsquo;angolo lontano, che batte Zoff, 3 a 1. All&rsquo;82&rsquo; la Juventus potrebbe fare il poker, ma Rossi viene anticipato da un&rsquo;uscita a valanga di Spink. &nbsp;   Le dichiarazioni del post partita  Dopo il successo, c&rsquo;&egrave; grande euforia in casa Juventus. Il presidente della Repubblica Pertini, rimasto in buoni rapporti con molti giocatori bianconeri dopo la famosa partita a scopone sull&rsquo;aereo, di ritorno dal trionfo di Madrid, telefona raggiante a Boniperti nell&rsquo;intervallo della sfida colpito dalla bellezza del gioco della Vecchia Signora: &laquo;Complimenti, complimenti a tutti. E un saluto al mio amico Zoff!&raquo;. Umberto Agnelli &egrave; ugualmente felice: &laquo;Adesso, per com'&egrave; andata la partita con tutte le cose belle viste, penso sia stata fatta anche giustizia alle polemiche. Tutta l'Italia ha visto di che cosa sia capace questa Juventus&raquo;. Anche un personaggio realista come Giovanni Trapattoni &egrave; al settimo cielo per la prova dei suoi ragazzi: &laquo;Dire che sono soddisfatto &egrave; dire poco. Non soltanto per lo spettacolo, ma anche perch&eacute; &egrave; stato dimostrato che la squadra possiede oltre alle capacit&agrave; tecniche uniche, le qualit&agrave; morali per emergere&raquo;. Poi il Trap prosegue con pi&ugrave; cautela: &laquo;In teoria la Coppa Campioni adesso sembra pi&ugrave; vicina, ma non possiamo illuderci che la strada sia diventata improvvisamente piana. A questo punto, visti i due risultati conseguiti dal Widzew, c&rsquo;&egrave; da pensare che la squadra pi&ugrave; ostica da affrontare sia proprio quest'ultima&raquo;. Trapattoni, che compir&agrave; gli anni il 17 marzo, il giorno successivo alla sfida, si &egrave; visto cos&igrave; consegnare un bellissimo regalo dai suoi giocatori, anche se il tecnico ha solo un evento importante in testa: &laquo;Il 25 maggio, il giorno della finale di Coppa&raquo;. Sar&agrave; l&rsquo;Amburgo del tecnico austriaco Ernst Happel a rovinare la festa tanto desiderata da Trapattoni e dalla sua bellissima Juventus, che si scioglier&agrave; come neve al sole proprio sul pi&ugrave; bello, dopo una marcia in Coppa Campioni a dir poco trionfale. Ma questa, appunto, &egrave; un&rsquo;altra storia. &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Nel cuore del processo di rinnovamento dei bianconeri partito in estate, la sfida contro i campioni uscenti d&rsquo;Europa sanc&igrave; la crescita del gioco e un cambio di atteggiamento &nbsp;

Juventus-Aston Villa 3-1, la creatura del Trap

        Da Giulio Nuciari a Valerio Fiori, passando per Fernando Orsi, Michelangelo Rampulla, Raffaele Di Fusco, Gianmatteo Mareggini, Massimo Piloni, Renato Copparoni, Nevio Favaro, Astutillo Malgioglio. &Egrave; veramente lunghissima la lista dei portieri di riserva rimasti negli annali. Chi pi&ugrave; di tutti ha per&ograve; saputo coltivare la virt&ugrave; della resilienza, tanto da essere definito il numero 12 per eccellenza, &egrave; Luciano Bodini, storico vice di Dino Zoff prima e Stefano Tacconi poi alla Juventus. Se &egrave; vero che a scrivere la storia sono i numeri 1, lo &egrave; altrettanto che quello del portiere di riserva &egrave; il ruolo pi&ugrave; complesso da ricoprire in una squadra di calcio. Non tanto oggi, in quanto il turnover riguarda anche l'estremo difensore, ma soprattutto qualche decennio fa il numero 12 rappresentava un vero e proprio eroe, l'elemento pi&ugrave; importante della panchina, il primo in ordine numerico ma l'ultimo a venire chiamato in causa. Sono tre le doti richieste al perfetto portiere di riserva: una pazienza infinita; farsi trovare pronto quando gli viene data un&rsquo;opportunit&agrave; e una grande dose di umilt&agrave;. Doti che appartengono al protagonista del nostro racconto: Luciano Bodini, un uomo d&rsquo;altri tempi che alla discoteca preferiva la musica classica e Claudio Villa e che nel tempo libero si dedicava alla sua grande passione, la pittura. Nonostante abbia collezionato appena 64 gettoni in Serie A, con altrettante reti subite, nel proprio palmar&egrave;s vanta 4 scudetti, una Coppa Italia, una Coppa Campioni, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa europea e una Coppa Intercontinentale. Niente male per essere una riserva. &nbsp; Luciano Bodini, dagli esordi con l&rsquo;Atalanta alla chiamata della Juve Nato a Leno il 12 febbraio 1954, Bodini cresce assieme al fratello nel settore giovanile dell'Atalanta, dove &egrave; allievo di Carlo Ceresoli. Nel 1974 viene mandato in prestito alla Cremonese con cui disputa tre campionati di Serie C, conquistando la promozione nella stagione 1976-77. Tornato a Bergamo, fa il proprio esordio in Serie A l'11 settembre 1977 in Atalanta-Perugia (1-1), parando un calcio di rigore a Renato Curi. Dodici apparizioni il primo anno, 24 il secondo. Nonostante le prodezze dell&rsquo;estremo difensore, per&ograve;, la Dea retrocede, ma per Bodini il tempo in Lombardia &egrave; scaduto: arriva la chiamata della Juventus. &ldquo;L&rsquo;allora presidente dell&rsquo;Atalanta Bortolotti mi chiam&ograve;, dicendomi che mi aveva venduto alla Juve. Allora decidevano tutto i presidenti - ricorda in un&rsquo;intervista recente -, non c&rsquo;erano procuratori, figuratevi che quando sei anni prima ero entrato nel vivaio nerazzurro fu mio padre a portarmi perch&eacute; avevano visto mio fratello che era una mezzala e disse che se volevano lui dovevano prendere anche il portiere. Con Boniperti non c&rsquo;era molto da discutere&rdquo;.&nbsp; Bodini, lo storico vice di Zoff e Tacconi Davanti a lui si ritrova un mostro sacro come Dino Zoff. Il portiere friulano ha per&ograve; gi&agrave; 37 anni, pertanto Bodini si aspetta di prendere il suo posto ma &ldquo;avevo fatto male i calcoli. And&ograve; avanti ancora quattro anni, vincendo il Mondiale&rdquo;. Nel 1983 per DinoMito giunge l&rsquo;ora di appendere scarpini e guanti al chiodo. Spazio a Bodini? Non proprio: dall&rsquo;Avellino arriva Stefano Tacconi: "Avevo finito bene la stagione, contribuendo alla vittoria della Coppa Italia e del Mundialito quindi mi sentivo sicuro delle mie potenzialit&agrave; - ammette -. Nessuno mi aveva detto che sarebbe stato lui il prescelto. Anzi, sia Boniperti che Trapattoni mi garantirono che saremmo partiti alla pari e ce la saremmo giocata in ritiro. Dopo aver capito che la scelta era caduta su Stefano, andai in societ&agrave; facendo presente che c&rsquo;erano altre squadre che mi volevano. Potevo fare il titolare altrove in Serie A, squadre di valore, ma Boniperti mi disse &lsquo;finch&eacute; io sar&ograve; qui, tu non te ne andrai, qualsiasi cosa accadr&agrave;&rsquo;&rdquo;. Decide di restare, anche se lo spazio per lui &egrave; esiguo.&nbsp;  La prodezza su Tigan&agrave; e la &ldquo;finale sfiorata&rdquo; Quando chiamato in causa, per&ograve;, risponde sempre presente: &ldquo;Nella finale di Supercoppa europea vinta 2-0 a Torino in mezzo alla neve contro il Liverpool scesi in campo con una maschera protettiva. Non come quelle di oggi, moderne e tecnologiche, giusto per sentirmi un po&rsquo; pi&ugrave; protetto. Mi ero fratturato il setto nasale, ma non avrei rinunciato a quella partita per nulla al mondo&rdquo;. L&rsquo;altra grande occasione si presenta in Coppa dei Campioni quando, dopo i quarti di finale contro lo Sparta Praga, &egrave; l&rsquo;assoluto protagonista del passaggio del turno contro il Bordeaux grazie a una super parata su Tigan&agrave;: &ldquo;Mancava un minuto alla fine, ci andai d&rsquo;istinto - ricorda -. Avevamo vinto 3-0 all&rsquo;andata, stavamo perdendo 2-0. Se fossimo andati ai supplementari sarebbe tornato tutto in discussione. Il giorno dopo fu un piacere comprare i giornali e vedere che tutti mi avevano dato un voto alto. Non ero abituato a finire sotto i riflettori&rdquo;. La grande prestazione fa pensare a un suo utilizzo anche nell&rsquo;ultimo atto all&rsquo;Heysel, ancora contro i Reds, ma Trapattoni rimette Tacconi a guardia della porta della Vecchia Signora: &ldquo;Ho provato tanta amarezza nel momento in cui ho saputo di non poter disputare la finale. Ho ricevuto una fitta tremenda al cuore, ma col tempo il dolore &egrave; scemato e ho ripreso fiducia in me stesso e negli altri&rdquo;. Gli ultimi anni e il ritiro Dopo dieci anni a Torino, milita una stagione nell&rsquo;Hellas Verona e una all&rsquo;Inter, sua squadra del cuore da bambino. Poi dice basta per dedicarsi alla famiglia e alle sue passioni: &ldquo;Oggi vivo in Versilia e faccio il babysitter. Mi godo i nipoti, li porto al mare, respiro l&rsquo;aria buona. Fino a qualche anno fa dipingevo, era la mia passione anche quando giocavo&rdquo;.&nbsp;        

Storico vice di Zoff e Tacconi, vinse tanto nei suoi dieci anni alla Juve. Tifoso interista da bambino, non amava la mondanit&agrave; e quando svestiva i guanti si dedicava alla sua grande passione: la pittura

Luciano Bodini, il numero 12 per eccellenza

        &ldquo;Con la Juventus ho imparato a vincere. Non so come sia successo, &egrave; qualcosa che si respira nell'aria dello spogliatoio, sono concetti che vengono tramandati da giocatore in giocatore: &egrave; il sentimento che ti trasmettono milioni di tifosi e non c'&egrave; club nel mondo che ti faccia lo stesso effetto&rdquo;. Parole che sanno di amore nato e mai finito, quelle di Edgar Davids per la Juventus. E credere che sia veramente cos&igrave; non &egrave; per nulla difficile, anzi. A Torino l&rsquo;olandese ha vissuto probabilmente il periodo migliore della sua carriera: sette stagioni in cui ha aggiunto alla sua gi&agrave; ricca bacheca di trofei tre scudetti, due Supercoppe Italiane e una Coppa Intertoto contribuendo con 10 reti in 235 presenze.    Davids e il grande rapporto con la Juventus &nbsp; Ma, oltre ai risultati sul campo, &egrave; stato l&rsquo;intenso affetto mostrato per la maglia bianconera e ricambiato totalmente dai tifosi a distinguere Davids dai tanti altri giocatori passati a Vinovo in quegli anni. Un sentimento d&rsquo;amore scattato da subito con il popolo juventino, che il centrocampista olandese &ndash; il primo oranje della storia del club &ndash; ha abbracciato nell&rsquo;inverno del 1997 dopo la rottura con il Milan. I rossoneri lo avevano portato in Italia dall&rsquo;Ajax, con cui tra gli altri titoli aveva vinto una Coppa Uefa e una Champions League facendo per&ograve; un favore nel 1996 proprio alla Juventus. Il 22 maggio all&rsquo;Olimpico di Roma, Davids si fece ipnotizzare dal dischetto dal suo futuro compagno di squadra Peruzzi nella notte in cui la Vecchia Signora ha alzato la sua fin qui ultima coppa dalle grandi orecchie della sua storia. &nbsp;   Via da Milano, Davids mostra le sue qualit&agrave; &nbsp; Da Milano Davids era partito per 9 miliardi di lire, lasciando nella testa dei tifosi non tanto l&rsquo;appellativo di &ldquo;pitbull&rdquo;, che gli aveva dato anni prima Van Gaal, quanto quello di &ldquo;mela marcia&rdquo; con cui sembra che lo abbia definito Costacurta poco dopo la sua cessione. &ldquo;Al Milan sono stato infortunato per diverso tempo e non ho dimostrato nulla, qui non deluder&ograve;&rdquo; disse l&rsquo;olandese al suo arrivo alla Juventus. E cos&igrave; fece. Dal suo esordio a Piacenza il 14 dicembre 1997, il nativo del Suriname ha portato nella squadra di Lippi prima e di Ancelotti poi, tutto il suo carisma in mezzo al campo. Non solo interdittore del gioco avversario grazie alla sua tenacia e al suo dinamismo: con i suoi dreadlock e gli occhiali speciali indossati dopo un&rsquo;operazione per un glaucoma fino a fine carriera, il classe 1973 &egrave; diventato uno dei pilastri della Juventus di quegli anni, disputando altre due finali di Champions e facendosi valere anche in zona offensiva grazie al suo mancino e alle sue qualit&agrave; in fase propositiva. Anche per queste doti, ricordiamo come uno dei migliori acquisti della storia del mercato di riparazione bianconera quello di Edgar Davids, il cui nome &egrave; infatti oggi su una delle 50 stelle della Walk of Fame dello 'Stadium'.       

Il centrocampista, passato nell&rsquo;inverno del 1997 dai rossoneri ai bianconeri, fu il primo olandese della storia del club di Torino di cui divenne un uomo chiave per sette stagioni

Davids, da “mela marcia” del Milan a pilastro della Juve

        Con la Juventus ho contribuito a vincere due scudetti e sono stato protagonista. Con il Napoli non &egrave; stato cos&igrave;, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto essere protagonista e lasciare il segno anche l&igrave;, ma non ci sono riuscito. La differenza tra le due esperienze &egrave; tutta l&igrave;&raquo;. Emanuele Giaccherini ha vestito la maglia della Juventus dall&rsquo;estate del 2011 al giugno del 2013: ha legato il suo nome a due titoli vinti dalla squadra guidata da Antonio Conte. A giugno del 2016, dopo gli Europei, giocati da protagonista con la maglia azzurra, si trasferisce a Napoli. Con gli azzurri gioca una stagione e mezza, senza per&ograve; trovare continuit&agrave; di rendimento. &laquo;Purtroppo speravo di potermi ritagliare pi&ugrave; spazio, ma non &egrave; stato cos&igrave;. Mi sono dovuto accontentare di piccoli spezzoni di gara&raquo;. Due anni a Torino, poco meno a Napoli, qual &egrave; la principale differenza che divide queste due piazze?&laquo;La differenza &egrave; legata alla mentalit&agrave;. Al Napoli, almeno quando c&rsquo;ero io, non c&rsquo;era la stessa mentalit&agrave; che ho registrato alla Juve. Una mentalit&agrave; rigida, fino alla fine: fino alla vittoria finale e che ti permette di saper gestire anche i momenti pi&ugrave; difficili. A Napoli invece, a mio avviso, forse c&rsquo;era troppa esaltazione in caso di vittorie ed eccessiva depressione quando si perdeva. Fortunatamente per i tifosi azzurri, ho visto che le cose sono cambiate lo scorso anno&raquo;. A Napoli non &egrave; scoccato il feeling con Sarri?&laquo;Non ho avuto un grandissimo rapporto extra campo con lui. Era un tecnico che guardava tantissimo il lavoro sul campo, ma a livello umano non curava troppo il rapporto con i giocatori. Dal punto di vista professionale, non ho avuto una grande considerazione da parte sua. Io venivo da un Europeo straordinario e mi aspettavo sicuramente qualcosa in pi&ugrave;. Magari sar&agrave; dipeso anche da me, per&ograve; lui aveva un modo di intendere il calcio troppo rigido e vincolato a un ristretto numero di calciatori. Magari io e tutti quelli che rimanevano di solito fuori, abbiamo sbagliato qualcosa e non gli davamo quello che chiedeva, ma alla fine &egrave; andata cos&igrave;&raquo;.    Dell&rsquo;esperienza a Napoli, cosa le &egrave; rimasto dentro?&laquo;L&rsquo;affetto dei tifosi. Unici. Nonostante non fossi un titolare, mi hanno sempre sostenuto, amato e fatto considerare importante. Mi hanno dato rispetto e riconoscenza. E poi ho lasciato anche tanti amici. Ho creato tanti rapporti a Napoli. Una citt&agrave; meravigliosa, che ti entra nel cuore e nella quale &egrave; bellissimo vivere. I tifosi sono unici&raquo;. E dal punto di vista calcistico?&laquo;Un terzo posto conquistato, e un&rsquo;esperienza che alla fine mi ha fatto maturare a livello caratteriale. Troppo facile ricordare solo le cose che vanno bene. Dai momenti negativi si cresce e si matura. E l&rsquo;esperienza a Napoli mi ha fatto maturare. E poi entrare nel San Paolo&hellip;&raquo;. Che esperienza &egrave; stata?&laquo;Unica. Io l&rsquo;ho provata nelle gare in cui ho giocato dall&rsquo;inizio. Quando ho segnato il gol al Genoa in campionato, ho sentito un&rsquo;esplosione. Uno stadio che ti trascina. Capisci la differenza che c&rsquo;&egrave; tra Napoli e tutte le altre piazze. Il pubblico ti regala qualcosa in pi&ugrave;, c&rsquo;&egrave; poco da fare&raquo;.   Tra i suoi ex compagni, con i quali ha instaurato un rapporto pi&ugrave; forte? &laquo;Sicuramente con Maggio e Gabbiadini. Abbiamo condiviso tanti momenti insieme, anche extra campo. Due persone splendide, con le quali vivevo anche vicino. Maggio, poi, mi ha aiutato molto anche nei momenti di difficolt&agrave;&raquo;. Passiamo alla Juventus, e torniamo a quella mentalit&agrave; che aveva precedentemente descritto. &egrave; l&rsquo;arma in pi&ugrave; del club bianconero?&laquo;Io quando sono arrivato alla Juve si respirava un&rsquo;aria negativa: la squadra veniva da due settimi posti. Ma tutti avevamo la sensazione che stava cambiando qualcosa. La Juve era ripartita da zero. Cambi&ograve; tante figure all&rsquo;interno: dall&rsquo;allenatore, Conte, ai medici, ai fisioterapisti, fino ai magazzinieri. Avevamo la sensazione che stesse partendo un nuovo ciclo: c&rsquo;erano campioni importanti, come Buffon, Del Piero, Chiellini, ma c&rsquo;era soprattutto alle spalle una societ&agrave; importante&raquo;. Come influiva la societ&agrave; sul vostro modo di lavorare?&laquo;Ti dava la sensazione di essere in un club dove la sconfitta non era prevista. Certo, nel calcio vince solo una squadra, ma la mentalit&agrave; era portata verso la vittoria&raquo;. Se con Sarri il feeling non &egrave; scoppiato, con Conte le cose sono andate diversamente?&laquo;La fortuna dei giocatori la fanno soprattutto gli allenatori. Con Conte sentivo la stima e la fiducia. Lui mi ha voluto fortemente alla Juve, andando anche contro tutti. Anche contro una societ&agrave; che magari preferiva altri giocatori. Lui mi avrebbe voluto gi&agrave; al Siena, ma in quell&rsquo;occasione ho preferito rimanere al Cesena e giocarmi le mie carte in Serie A e ho fatto una bella stagione. Poi, una volta passato alla Juve, il mister mi ha chiamato nuovamente. E so che quando i bianconeri mi hanno ceduto al Sunderland, lui ha fatto di tutto per tenermi alla Juve&raquo;. La pi&ugrave; bella partita giocata con la maglia della Juventus?&laquo;Ne ho giocate diverse (ride, ndr.). Ne ricordo soprattutto una, in Coppa Italia contro il Bologna. Feci gol, dopo una bella serpentina e fu la gara nella quale Conte coni&ograve; il termine &ldquo;Giaccherinho&rdquo;, dicendo che se fossi stato preso da un club straniero ci sarebbe stata un&rsquo;altra considerazione nei miei confronti. Probabilmente intorno al mio nome, anche perch&eacute; venivo dalla provincia, c&rsquo;era sempre un po&rsquo; di scetticismo. Quello fu il primo, vero squillo, che diedi ai tifosi e alla societ&agrave;&raquo;. E con il Napoli, c&rsquo;&egrave; una gara da ricordare?&laquo;Contro lo Spezia in Coppa Italia: feci un gran gol al volo sul secondo palo. Purtroppo, come dicevo, a Napoli mi dovevo accontentare soprattutto degli spezzoni. Ma quella partita giocai molto bene&raquo;.       

Due scudetti con la Juventus e poi un anno e mezzo in azzurro: &laquo;Non ho fatto bene, con Sarri non &egrave; mai scattato l&rsquo;amore&raquo;

Emanuele Giaccherini: Il Napoli ha tifosi speciali

        Gli anni Ottanta segnarono uno spartiacque nella storia italiana del XX secolo. Furono il nuovo orizzonte a cui puntare lasciandosi alle spalle anni di contestazione e violenza armata che aveva insanguinato il Paese. Anni di proiezione verso un futuro che il sentire collettivo presagiva essere diverso, pi&ugrave; tecnologico, fondato su nuovi equilibri che anche nel mondo del calcio andavano definendosi. Gi&agrave;, perch&eacute; fu proprio all&rsquo;alba di quel decennio che ai vertici della serie A fecero capolino squadre, come Napoli e Roma, che negli anni seguenti avrebbero messo in discussione, fino ad usurparlo, il trono che le squadre del nord erano solite spartirsi tra loro. In particolare la Juventus era stata la regina quasi incontrastata degli anni Settanta e l&rsquo;esame di ammissione nell&rsquo;alta societ&agrave; del calcio italiano doveva per forza passare al suo vaglio.   &nbsp; Percorso azzurro La salita ai vertici del campionato per il Napoli cominci&ograve; nella stagione 1980-81, annata nella quale i partenopei, insieme alla Roma, misero fino all&rsquo;ultimo in discussione il ritorno al titolo dei bianconeri. Il 25 gennaio 1981 gli azzurri andarono a Torino appaiati ai torinesi in classifica al terzo posto, a due soli punti dalla vetta. Era il Napoli che Rino Marchesi guidava con saggezza sulle solide fondamenta costituite da Castellini, Bruscolotti, Ferrario e Krol in difesa. Marangon scendeva sulla sinistra, Damiani e Pellegrini concretizzavano il lavoro di Vinazzani, Guidetti e Nicolini. Gi&agrave; al 2&rsquo; Pellegrini port&ograve; in vantaggio il Napoli, che nella ripresa fu raggiunto da un gol di Tardelli al 13&rsquo;. Il duello and&ograve; avanti fino alla penultima giornata, quando proprio a Napoli la Juventus, vincendo, fece l&rsquo;allungo decisivo per vincere il suo diciannovesimo titolo. Quella squadra sembrava poter aprire un ciclo. Invece, dopo il buon quarto posto della stagione successiva, arrivarono due anni piuttosto tormentati, nei quali gli azzurri si ritrovarono spesso nei bassifondi della classifica e le trasferte a Torino si tramutarono in sconfitte indiscusse (3-0 nel 1982-83, 2-0 nel 1983-84). Anche nel primo anno dell&rsquo;era Maradona salire al Comunale non fu piacevole: Briaschi e Platini stesero i partenopei in una partita che significava poco per la classifica, con i bianconeri proiettati alle conquiste internazionali (quell&rsquo;anno vinsero Supercoppa Europea e Coppa dei Campioni) pi&ugrave; che sulle vicende del campionato, che per quell&rsquo;anno decisero di trascurare. &nbsp;   La scalata alla Serie A L&rsquo;assalto alla nobilt&agrave; che rappresentava la Vecchia Signora si fece pi&ugrave; pressante a partire dalla stagione 1985-86. Alla ventiquattresima giornata (9 marzo 1986) la Juventus &egrave; stabilmente prima ma deve guardarsi le spalle dalla prodigiosa rimonta che la Roma sta mettendo in atto. Il Napoli &egrave; terzo, con ben nove punti di distacco dai bianconeri ma una sua vittoria, oltre che consolidare la posizione di classifica, potrebbe aiutare i giallorossi ad avvicinarsi ulteriormente a Platini e compagni. Che, in effetti, passano un brutto quarto d&rsquo;ora a cavallo delle due frazioni di gioco, perch&eacute; al 34&rsquo; uno sfortunato colpo di testa di Favero su battuta di Maradona inganna Tacconi e porta il Napoli in vantaggio. Bisogna aspettare il 4&rsquo; della ripresa perch&eacute; Brio, su appoggio all&rsquo;indietro di Bonini, con un diagonale preciso sul palo alla destra di Garella, faccia passare la paura che era calata sullo stadio sabaudo. Dopo otto mesi esatti (9 novembre 1986) la sfida si ripropone. La Juventus, noblesse oblige, &egrave; sempre in vetta. Ma la distanza siderale con cui i partenopei si erano presentati a Torino la stagione precedente &egrave; scomparsa: Maradona &amp; C. sono appaiati ai bianconeri in testa alla classifica con 12 punti. La gara si presenta come una sorta di spareggio che possa dare un orientamento sul futuro della stagione. Le due squadre ci arrivano con agitazioni diverse da gestire: la Juventus &egrave; stata eliminata in settimana ai rigori dal Real Madrid in Coppa dei Campioni, il Napoli deve proteggere Maradona dalle turbolenze della sua vita privata (Cristiana Sinagra ha da poco annunciato di aver avuto un figlio da Diego). Il popolo partenopeo sogna e, con migliaia persone, inonda il Comunale. La partita si sblocca solo all&rsquo;inizio del secondo tempo: &egrave; Laudrup, al 5&rsquo;, a mettere in rete da pochi metri una ribattuta di Garella. Sembra lo svolgimento del solito copione: in realt&agrave; &egrave; solo un abbaglio. Paradossalmente lo svantaggio d&agrave; una scossa alla squadra di Ottavio Bianchi, che nell&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora capovolge il risultato: Ferrario, Giordano e Volpecina regalano una vittoria che sa di scudetto che proprio l&rsquo;Avvocato Agnelli, qualche tempo prima, aveva pronosticato. Lo stadio esplode, lasciando sorpreso anche il Pibe de Oro. Nella sua autobiografia, ricordando quella partita, dir&agrave;: &ldquo;Tutti festeggiavano... ma noi non capivamo. Quando avevano segnato loro si era sentito un timido 'gol', e basta. Segniamo il secondo e di nuovo tutti a festeggiare. Il terzo, ancora di pi&ugrave;.&nbsp;Lo stadio era pieno di operai, tutti del sud! Terminarono gridando Na-po-li! Na-po-li! Fu una cosa impressionante!". &Egrave; la prima vittoria a Torino dopo ventinove anni.   Il 20 novembre 1988 arriva l&rsquo;ultima affermazione in casa juventina degli anni Ottanta. L&rsquo;anno prima il Napoli, nel pieno di quel cammino rallentato nella seconda parte di stagione che permetter&agrave; al Milan di Sacchi di scucirgli lo scudetto dalle maglie, aveva perso 3-1 (Cabrini, Rush e De Agostini per la Juventus, Careca per gli azzurri). Ma la nuova stagione porta altri entusiasmi e, soprattutto, un organico diverso. Salutati in malo modo Garella, Ferrario, Bagni e Giordano, la squadra riprende la sua marcia in Italia e in Europa. Dopo la quinta giornata di campionato le squadre, come due anni prima, sono appaiate in classifica ma al terzo posto, con 7 punti. Questa volta la partita si sblocca gi&agrave; nel primo tempo: &egrave; Napoli show con la rete di Carnevale e le due di Careca. Nella ripresa la Juve reagisce d&rsquo;orgoglio, accorcia con Galia e Zavarov prima di subire il 2-4 ancora per mano di Careca. I rigori negli ultimi minuti di De Agostini e Renica, concessi con gentilezza dall&rsquo;arbitro Lanese, ampliano il risultato che lascia sorpreso anche Henry Kissinger, spettatore d&rsquo;eccezione al fianco di Gianni Agnelli. Del resto gli anni Ottanta furono cos&igrave;: un ballo effervescente tra edonismo e vanit&agrave; che cancell&ograve; la tradizione di un campionato che un tempo viveva di punteggi risicati. &nbsp;       

Le squadre si trovarono spesso appaiate in lotta per il titolo: nel 1981 fin&igrave; 1-1, nel 1986 una storica vittoria (1-3) lanci&ograve; il Napoli verso il tricolore mentre nel 1988 gli azzurri dettero spettacolo (3-5) sotto gli occhi di Kissinger

Anni Ottanta, quando Juventus-Napoli era uno spareggio scudetto

        Sembrava essere diventata una di quelle leggi non scritte, perch&eacute; aveva cominciato a stratificarsi con il conforto statistico di una tradizione recente: Roma che passa in vantaggio, poi la Juventus pareggia e rimonta portandosi a casa la partita per due gol a uno. Nella stagione precedente, vale a dire il campionato 1982-83, era finita sempre nella medesima maniera, tanto all&rsquo;andata quanto al ritorno; al vecchio &ldquo;Comunale&rdquo; torinese come allo Stadio Olimpico. &nbsp; Il giorno della rovesciata &nbsp; Quando, il 4 dicembre 1983, la Roma di Nils Liedholm con il Tricolore cucito sul petto fa visita alla Juventus, Di Bartolomei e compagni sono reduci da alcune prestazioni al di sotto del loro valore. In realt&agrave;, il primo tempo che finisce a reti bianche traduce una certa superiorit&agrave; del palleggio romanista e Falc&atilde;o fallisce il vantaggio proprio allo scadere della prima frazione. Nella ripresa, i giallorossi trovano meritatamente il vantaggio con un tracciante rasoterra, millimetrico e millimetrato, sbocciato dal sinistro di Bruno Conti. Immancabile, per&ograve;, arriva la punizione a giro di interno destro di Michel Platini, come da recente, succitata tradizione. Ci&ograve; di cui i romanisti cominciano ad aver paura, visti i precedenti del dell&rsquo;anno prima, puntualmente si materializza, tra l&rsquo;altro con la firma dell&rsquo;ex Mimmo Penzo. Tutto da copione, ancora una volta, tanto che un esercito di titolisti si appresta a far uscire "Non c&rsquo;&egrave; due senza tre". Quando inizia l&rsquo;ultimo giro di lancetta utile, tutti pensano di s&igrave;. Quasi tutti: non lo pensa Nela che lancia lungo, non Bonetti che offre a Chierico una sponda di testa; allora non lo pensa neanche Chierico, che elegantemente controlla in palleggio e poi crossa in mezzo: a quel punto non lo pensa neanche Roberto Pruzzo, spalle alla porta nel cuore dell&rsquo;area bianconera. Il Bomber capovolge se stesso, quando occorre. Alla Roma restava la speranza di un'azione, una sola. Pruzzo vede spiovere il pallone, sa che non avr&agrave; mai il tempo di controllare, girarsi e tentare di battere a rete: ha un cespuglio di maglie juventine attorno. Pu&ograve; fare soltanto una cosa. La fa. La rovesciata &egrave; talmente bella che chi la vede, in campo e fuori, soltanto in un secondo momento capisce che &egrave; anche vera. Tacconi le vola appresso, nell'aria immobile come il respiro di chi stenta a credere, fratturandosi un dito. &Egrave; il novantesimo minuto pi&ugrave; bello di sempre. Qualche secondo dopo il fischio finale di Casarin, Galeazzi lo raggiunge sul terreno di gioco: ancora incredulo e col fiato corto, lui trova le parole solo per dedicare il goal a Carlo Ancelotti, che nel primo tempo aveva visto terminare la sua stagione a causa dell'ennesimo infortunio al ginocchio. Il commento pi&ugrave; esaustivo arriva dallo spogliatoio bianconero, &egrave; una specie di editoriale di Sua Maest&agrave; Platini: &laquo;Risultato giusto, la Juventus la stavo vedendo male dopo il gol di Conti. Il due a due l&rsquo;ha voluto Pruzzo, non &egrave; un jolly, l&rsquo;ha voluto Pruzzo perch&eacute; ha cercato di fare gol per tutta la partita&raquo;.       

Era il 4 dicembre 1983, quando O Rey de Crocefieschi blocc&ograve; sul 2-2 la Juventus di Le Roi&nbsp; Platini&nbsp;

Pruzzo, la rovesciata che fece storia

        Nella storia del calcio pochi giocatori possono dire di aver vinto in carriera almeno un Mondiale e una Champions League (o Coppa dei Campioni). Un gruppo elitario di calciatori che comprende nomi come Zidane, Messi, Del Piero o Paolo Rossi. Siedono al loro stesso tavolo altri calciatori che forse suonano meno altisonanti alle orecchie degli appassionati, nonostante possano comunque vantare questa doppietta d&rsquo;eccezione nel loro palmar&egrave;s. Tra questi c&rsquo;&egrave; anche Karl-Heinz Riedle, oggi fresco di 58 candeline spente, che tra gli anni &lsquo;80 e &lsquo;90 ha definito il nuovo ruolo di centravanti finendo per vincere tutto o quasi. &ldquo;Gummy&rdquo;, come lo chiamavano in Germania perch&eacute; pi&ugrave; che saltare di testa rimbalzava, viene conosciuto da tutti in patria a partire dalla stagione 1987-88 quando, al primo anno con il Werder Brema, porta la squadra di Otto Rehhagel ad un trionfo storico in Bundesliga segnando anche i due gol decisivi per il titolo. A Italia &lsquo;90 la Germania dell&rsquo;Ovest si laurea campione del mondo ma il centravanti bavarese non vive delle notti magiche contribuendo con quattro presenze senza mai trovare il gol.  &nbsp;  Una nuova carriera in Italia  &Eacute; qui che la storia di Karl-Heinz Riedle prende una piega per certi versi inaspettata. Il presidente della Lazio Gianmarco Calleri chiude per 10 miliardi e mezzo di lire la trattativa con il Werder Brema: &ldquo;Kalle&rdquo;, un campione del mondo, il primo tedesco a vestire la maglia biancoceleste, arriva davvero a Roma. Con la Lazio e i suoi tifosi il classe 1965 instaura un rapporto di vero amore, formando una coppia d&rsquo;attacco esaltante con Rub&eacute;n Sosa e facendo riaccendere la scintilla in una squadra che in quel periodo non viveva un momento di grande splendore. Il primo dei 32 gol in biancoceleste &ldquo;Gummy&rdquo; lo segna da rapace d&rsquo;area contro il Milan davanti ai suoi nuovi tifosi, che lo vedono giocare in Italia fino al 1993 e con lui soffrono un anno prima quando la Germania esce sconfitta contro la Danimarca dalla finale dell&rsquo;Europeo di Svezia.   Ritorno in Germania Riedle torna cos&igrave; in patria al Borussia Dortmund con cui, prima di diventarne un dirigente, &ldquo;da giocatore completo&rdquo; (per citare le sue stesse parole) conquista due scudetti consecutivi, una Supercoppa tedesca ma soprattutto la Champions League del 1997 stendendo la Juventus con una doppietta in finale. &Eacute; il culmine della carriera del bavarese, che pi&ugrave; tardi al Liverpool trover&agrave; poco spazio e nel 2001 dir&agrave; addio al calcio giocato vestendo la maglia del Fulham.         

L&rsquo;ex punta biancoceleste compie proprio oggi 58 anni: fece sognare i tifosi del Werder, Lazio e del Borussia Dortmund

Karl-Heinz Riedle, il maestro del colpo di testa

        Berlusconi ancora non scendeva in campo, lui s&igrave;. Un piccolo parallelo cronologico per ricordarci anche un poco di chi eravamo e di quale Italia c&rsquo;era sullo sfondo della nostra Serie A il giorno in cui un ragazzino di nome Alessandro Del Piero ne assaggiava l&rsquo;erba e i clamori. Nel tempo, ne sarebbe diventato anche un protagonista assoluto, sempre indossando la stessa maglia di quel suo esordio. Quanto a Berlusconi, da presidente del Milan avrebbe ricevuto pi&ugrave; di un dispiacere dal ragazzo di Conegliano Veneto, cresciuto a San Vendemiano, che nel tempo avrebbe mantenuto una naturale completezza nella voce e nei modi, unita a una classe naturale che ne avrebbero fatto ben presto una eccellenza del calcio mondiale.&nbsp; Del Piero il fantasista Il fantasista, nel senso pi&ugrave; alto del termine, capace di agire da seconda punta sposando le sue caratteristiche in rifinitura a pi&ugrave; di una tipologia di centravanti; abilissimo nel dribbling e nell&rsquo;uno-due, grazie ai quali riusciva a ricavarsi l&rsquo;angolo di tiro anche da posizione piuttosto defilata, dopodich&eacute; la sua tipica traiettoria scoccata con l&rsquo;interno destro risultava l&rsquo;interpretazione ideale di qualsiasi prospettiva. Da qualsivoglia angolazione. Complementare a questo talento specifico era la sua abilit&agrave; nel calciare le punizioni, spesso inesorabili dalla distanza specifica compresa tra i venti e i venticinque metri. Era gi&agrave; parecchio pi&ugrave; bravo degli altri, compresi i pi&ugrave; grandi, all&rsquo;oratorio; eppure nei temi scriveva ancora di voler diventare un elettricista come suo padre, oppure un camionista. Il calcio cominci&ograve; a portarlo via da quelle ambizioni di normalit&agrave; quando nel 1992 il Padova lo acquist&ograve; dal San Vendemiano per farlo giocare con gli Allievi. Non ci mise molto ad arrivare in prima squadra e a esordire in Serie B; ancora meno impieg&ograve; Giampiero Boniperti a raccogliere le referenze utili per decidere di portarlo via subito a una concorrenza che stava per diventare numerosa e agguerrita.&nbsp;  Leggenda della Juventus Per cinque miliardi di Lire, nel 1993 Del Piero passa alla Juventus e firma il primo contratto da professionista. La sua storia in maglia bianconera comincia per&ograve; per davvero esattamente trent&rsquo;anni fa, il 12 settembre del 1993, quando allo stadio &ldquo;Zaccheria&rdquo; di Foggia subentra a Fabrizio Ravanelli al minuto 74 di un Foggia-Juventus che terminer&agrave; 1 - 1. Qualche giorno dopo conoscer&agrave; anche l&rsquo;esordio in Coppa Uefa, contro la Lokomotiv Mosca, pur facendo ancora formalmente parte della Primavera allenata da Antonello Cuccureddu. Il 19 settembre, vale a dire sette giorni dopo l&rsquo;esordio, arriver&agrave; anche il primo gol in A, contro la Reggiana.&nbsp;Comincia cos&igrave; una storia che alla fine conster&agrave; di 705 presenze, 290 gol e un palmares sterminato: sei scudetti, una Coppa Italia, quattro Supercoppe italiane, un Campionato di B e una Coppa Intertoto, una Champions League, una Supercoppa Uefa e una Coppa Intercontinentale. Nel frattempo, con la Nazionale mette in bacheca la Coppa del Mondo 2006 e il secondo posto all&rsquo;Europeo del 2000. Non male, per uno al quale la madre consigliava di stare in porta, perch&eacute; avrebbe sudato meno.&nbsp; &nbsp;       

Esattamente 30 anni fa il ragazzo di Conegliano faceva il proprio esordio in Serie A entrando al 74' al posto di Ravanelli in un Foggia-Juventus terminato 1-1. Da quel momento ha scritto la storia del calcio italiano e non solo&nbsp;

Del Piero, l'alba di Pinturicchio

        Un gruppo di studenti del Liceo classico &ldquo;Massimo D&rsquo;Azeglio&rdquo; di Torino, con in testa l&rsquo;idea di adoperare il calcio come volano di aggregazione e appartenenza, si fermavano a discutere animatamente sull&rsquo;idea di avere una squadra tutta loro; solitamente quelle chiacchierate avvenivano lungo Corso Re Umberto, all&rsquo;ombra dei filari di alberi vicino alla loro scuola. Siamo nel 1897. La maglia della Juventus, la sua storia Identificativa di una squadra, non soltanto in senso calcistico, &egrave; innanzitutto la divisa, in questo caso quella da gioco.&nbsp;All&rsquo;epoca in cui la cravatta ancora corredava l&rsquo;abbigliamento di molte discipline sportive, quei liceali torinesi optarono per una camicia rosa con cravatta nera. Come si arriv&ograve;, dunque, alle strisce verticali bianche e nere, adottate nel 1903? Non fu un caso fortuito, anche se per tanto tempo &egrave; stata raccontata la storia di una partita di maglie del Newcastle inviata per errore a Torino. La realt&agrave; &egrave; che a ogni lavaggio, pur accurato che fosse, quei ragazzi vedevano scolorire sempre di pi&ugrave; il rosa gi&agrave; pallido delle divise. Chiesero allora a un loro compagno inglese, John Savage, di acquistare delle divise da gioco appena gli sarebbe stato possibile tornare in Inghilterra. Quando accadde, l&rsquo;inglese acquist&ograve; la stessa muta adottata dal Notts County, il pi&ugrave; antico club della prima divisione inglese, fondato nel 1862. Disposte verticalmente, le righe bianconere da allora diventarono la divisa ufficiale della Juventus.  Inizia la Juventus degli Agnelli Dal 1923 la propriet&agrave; della squadra pass&ograve; alla famiglia Agnelli. C&rsquo;&egrave; un 24 luglio memorabile anche a Torino: per l&rsquo;appunto quello di cento anni fa. &Egrave; la data spartiacque della storia bianconera. Il giorno in cui il Cavaliere Edoardo Agnelli, dottore in legge, diventa Presidente della societ&agrave;, prendendo il testimone cedutogli da Gino Olivetti, che era stato l&rsquo;undicesimo presidente juventino. Edoardo Agnelli, figlio del senatore Giovanni, il &ldquo;padre&rdquo; della Fiat assieme ad altri undici fondatori, nonch&eacute; uno degli industriali pionieri che fecero nascere Confindustria. Edoardo, il primo rampollo degli Agnelli che prese in mano la Juventus, lo fece su consiglio della classe operaia e del proletariato cittadino, se vogliamo. A questo punto entra nella storia il difensore Antonio Bruna, di Vercelli, tesserato per la Juventus FC e al contempo operaio Fiat, che beneficia di un permesso per allenarsi con i bianconeri firmato dal senatore Agnelli: &ldquo;Avvocato Edoardo, sarebbe un grande onore averla come presidente&rdquo;. Trentunenne, il vicepresidente della Fiat e delle officine di Villar Perosa, da uomo di sport, appassionato di football e di competizioni motoristiche, si mette alla guida di quella che con il tempo, le vittorie accumulate e il blasone dei tanti campioni che ne avrebbero vestito la maglia, sarebbe diventata la &ldquo;Vecchia Signora&rdquo; del calcio italiano.  Juventus, lo spirito del tempo Edoardo assume quel ruolo con uno spirito innovatore suggerito dall&rsquo;esempio d&rsquo;oltreoceano fornito da Henry Ford; vuole coinvolgere gli uomini che lavorano per lui, renderli compartecipi dei destini dell&rsquo;azienda, o in questo caso della societ&agrave; sportiva. Sul piano strettamente calcistico, capisce che il mondo del pallone nel Belpaese ha bisogno di guardare all&rsquo;esempio dei maestri d&rsquo;Oltremanica, di uscire quindi dal romantico dilettantismo e di puntare a un&rsquo;organizzazione professionistica e di conseguenza a un ordinamento professionale. Per cominciare, un nuovo stadio, quello di Corso Marsiglia, e poi come guida tecnica un sergente di ferro proveniente dalla pi&ugrave; nobile scuola calcistica dell&rsquo;epoca, quella ungherese: Jen&ograve; Karoly. L&rsquo;allenatore magiaro porta in dote a Torino il fuoriclasse Ferenc Hirzer, il capitano dell&rsquo;Ungheria. Tutti gli osservatori del Presidente che battono in lungo e in largo il Sudamerica scovano poi per la &ldquo;Juve&rdquo; dei pezzi pregiati, inteso come fuoriclasse, che arrivano a vestire la maglia bianconera: gli oriundi Orsi, Monti, Cesarini che diventano compagni di squadra di campioni autoctoni come Combi, Rosetta, Calligaris e Munerati. Una Juventus che resta ancora oggi tra le pi&ugrave; memorabili, capace di conquistare cinque titoli nazionali di fila nel &ldquo;lustro d&rsquo;oro&rdquo; 1930 - 1935 (solo la Juve del terzo millennio, sotto la presidenza di Andrea Agnelli, ha fatto meglio, con nove titoli consecutivi). Questa &egrave; anche l&rsquo;epoca in cui si afferma il leggendario &ldquo;stile Juventus&rdquo; della Fidanzata d&rsquo;Italia, descritto con la giusta enfasi dalle edizioni del Guerin Sportivo dell&rsquo;epoca: &ldquo;Sempre uguali i dirigenti, sempre fedeli i soci, sempre uniti i giocatori, mai troppo lodati, mai troppo rimproverati, in quest'ambiente vi &egrave; una cosa: l'educazione non solo sportiva, ma anche sociale&rdquo;.        

La dinastia torinese scelse la strada dello sport per raggiungere obiettivi non di aggregazione, ma sociali e politici: storia di una stirpe e due colori centenari

Agnelli e la Juventus, 100 volte una storia di famiglia

        Possiamo stare qui a parlare a lungo di calcio totale, dimenticandoci spesso di un aspetto fondamentale: non era uno stile per "risultatisti", almeno a livello di nazionale. Perch&eacute; l'Olanda, la grande Olanda del 1974, in quella Cappella Sistina che fu il Mondiale giocato in Germania dagli Oranje, alla fine torn&ograve; a casa a mani vuote. Tutt'altro discorso per i club, dove comunque c'&egrave; una data che segna la fine di tutto, o quasi: 31 maggio 1973, l'ultima Coppa Campioni vinta dall'Ajax con Cruijff in campo, la terza consecutiva. Fu un 1-0 per i Lancieri contro la Juventus; gol lampo di Rep, sufficiente per sollevare il trofeo in quello che sarebbe stato il canto del cigno del "totalvoetbol". &nbsp; Calcio totale, un movimento culturale Non c'era solo il pallone in quella Olanda a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. In una sorta di rinascimento culturale da ricondurre una certa idea di libert&agrave; molto tipica della regione sfociata nel movimento Provos, un movimento simil-anarchico che avr&agrave; il suo culmine in tutta la successiva ondata del '68. Un ambiente nato in Olanda dove anche l'architettura, in senso stretto, ha sempre ricoperto un ruolo fondamentale; basti pensare proprio allo spazio fisico di questa terra, in perenne lotta contro l'acqua per non rimanere sommersa. Poteva in una societ&agrave; del genere il calcio non ricoprire un ruolo fondamentale? Merito di due persone, soprattutto: Jack Reynolds, leggendario allenatore inglese che aveva guidato l'Ajax tra il 1915 e il 1947, e Michel de Klerk, uno dei leader dell&rsquo;Amsterdamse School, capofila del movimento chiamato "architettura totale", di nuovo, o Amsterdamse School. Uno degli esponenti dell'AS, Dan Roodenburgh, avrebbe progettato il De Meer, vecchio stadio dell'Ajax prima dell'Amsterdam Johann Cruijff ArenA. Tra gli allievi di Reynolds, invece, quel Rinus Michels allenatore dei Lancieri nella loro prima Coppa Campioni vinta, nel 1971, e futuro commissario tecnico della Nazionale. Nel 1973, invece, il terzo trionfo europeo consecutivo con il romeno Stefan Kovacs in panchina, discepolo a sua volta di Michels.  Ajax-Juventus, la finale del 1973 Olanda sul tetto d'Europa per club gi&agrave; nel 1970, con la vittoria del Feyenoord di (tra gli altri) Wim Van Hanegem, futura colonna della nazionale. Poi, il triennio dell'Ajax: nel 1971 sconfitto il Panathinaikos con Michels in panchina, poi le due italiane, Inter e Juventus, tra il 1972 e il 1973. Sempre con quello stile di gioco in cui i ruoli non erano fissi, ma intercambiabili, e dove alla tecnica di base si aggiungeva una fortissima componente atletica.&nbsp; Quest'ultima partita, la finale del 1973, vinta in maniera "quasi italiana", quindi senza un dominio territoriale netto. Un golletto subito, quello di Rep, di testa, dopo cinque minuti, sovrastando Longobucco e beffando Zoff con una parabola imprendibile, e poi in controllo. Molto fuorigioco, quello s&igrave;, uno strumento non conosciutissimo in Italia e in cui la Juve cadde frequentemente.&nbsp; Per il terzo anno consecutivo l'Ajax in finale cambi&ograve; il capitano, a conferma di quell'essere "totale" del gruppo, dove ciascuno, pi&ugrave; o meno, poteva essere il leader emotivo della squadra. Nel 1973 per la prima volta tocc&ograve; a Crujiff la fascia, mentre in precedenza a Keizer e Vasovic. Era il 30 maggio 1973, cinquant'anni fa. Per altri 22 anni l'Ajax non avrebbe pi&ugrave; vinto una Champions League. Ci riuscir&agrave; grazie a un gruppo di ragazzini terribili e a un altro allenatore visionario come Louis Van Gaal.       

Cinquant'anni fa i Lancieri vinsero la terza Coppa dei Campioni consecutiva, apogeo del loro stile di gioco rivoluzionario che si riverberava in diversi aspetti della societ&agrave; olandese

Ajax-Juve, il canto del cigno del calcio totale

        Raramente si sono potute riscontrare tante qualit&agrave; nella stessa persona. Prima di essere un calciatore straordinario, era una persona straordinaria. Definirlo campione potrebbe essere riduttivo per l&rsquo;abuso di un termine che oggi ha quasi perso di significato, e non calzerebbe bene neanche top player, perch&eacute; lui era semplicemente top. Oggi Gaetano Scirea avrebbe compiuto settant&rsquo;anni, poco pi&ugrave; della met&agrave; dei quali trascorsi sulla Terra; muore giovane chi &egrave; caro agli Dei, e lui non avrebbe potuto esentarsi dalla convocazione sull&rsquo;Olimpo. Era talmente lontano dal prototipo di calciatore attuale che necessiterebbe di una categoria a parte; troppo semplice, troppo, umile, troppo leale. &Egrave; stato un esempio eccessivo per poter essere avvicinato, semplicemente perch&eacute; era inarrivabile. Nel corso degli anni, la critica calcistica ha sempre trovato un erede, qualcuno che potesse essere il nuovo Rivera, il nuovo Maradona, il nuovo Zoff: nessuno &egrave; mai stato accostato a Gaetano Scirea, perch&eacute; la distanza sarebbe stata incolmabile laddove lo spessore umano avrebbe reso impareggiabile qualsiasi slancio di natura tecnica.&nbsp;  Gaetano Scirea, un esempio unico La sua classe era cristallina; sapeva leggere lo sviluppo del gioco in maniera eccellente, aveva senso della posizione, stacco di testa, tempi di inserimento, capacit&agrave; nella marcatura e un&rsquo;apprezzabile tecnica individuale. I suoi interventi sull&rsquo;avversario erano leggeri, era talmente superiore da non ricorrere al quel vigore agonistico imposto dal ruolo di ultimo baluardo difensivo piazzato davanti al portiere; era rapido e al tempo stesso intuiva con una fulminea velocit&agrave; le fasi successive dell&rsquo;azione: per questo, arrivava sempre in anticipo senza sporcarsi mai. Il suo stile era candido, aveva il difetto di non avere difetti. Aveva un&rsquo;eleganza concreta, mai fine a s&egrave; stessa; aveva una gran classe, ma al tempo stesso efficiente, combattivo, determinante. Professione difensore, zero espulsioni in carriera: era questa la medaglia della quale andava pi&ugrave; orgoglioso. Era uomo di azione e di pensiero, taciturno al punto di sembrare erroneamente quasi schivo. Era di poche parole, un modello di vita da seguire dentro e fuori dal campo.&nbsp;&nbsp; Gli inizi all&rsquo;Atalanta Era nato a Cernusco sul Naviglio, e mosse i suoi primi passi da giocatore nel Serenissima San Pio X di Cinisello Balsamo, a quattordici anni - nel 1967 - super&ograve; un provino nell&rsquo;Atalanta; gioc&ograve; nelle giovanili della formazione bergamasca come ala d&rsquo;attacco, ma le sue grandi capacit&agrave; di organizzare il gioco alla fine spinsero gli allenatori a schierarlo come centrocampista. La svolta a livello di ruolo arriva all&rsquo;inizio degli anni Settanta quando il tecnico della squadra Primavera Ilario Castagner decide di schierarlo come libero alle spalle della difesa. &Egrave; un ruolo che sembra fatto su misura per Gaetano Scirea che a diciannove anni fa il proprio esordio in Serie A contro il Cagliari di Gigi Riva. Nell&rsquo;Atalanta gioca da libero, e copre le spalle ad Antonio Percassi, oggi presidente del club nerazzurro.  Il trasferimento alla Juve Dopo una stagione in Serie B, nell&rsquo;estate del 1974 viene acquistato dalla Juventus per 700 milioni di vecchie lire, i cartellini di Giorgio Mastropasqua e Gian Piero Marchetti, e la compropriet&agrave; dell&rsquo;attaccante Musiello. Il giovane difensore non paga il salto di categoria, trova un immediato feeling con i compagni di squadra - in particolare con Dino Zoff - e raccoglie agevolmente l&rsquo;eredit&agrave; dell&rsquo;esperto Sandro Salvadore, per anni riferimento della retroguardia juventina. La Juventus vince lo scudetto precedendo il Napoli in classifica, Scirea in campionato colleziona 28 partite mostrando da subito le proprie qualit&agrave; assolute, tanto che a met&agrave; del campionato successivo arriva anche la convocazione di Fulvio Bernardini che lo chiama a Coverciano e lo fa esordire contro la Grecia (30 dicembre 1975) in un&rsquo;amichevole che gli Azzurri vincono per tre a due. Per il difensore della Juve si apre un capitolo straordinario in Nazionale che si concluder&agrave; soltanto undici anni dopo, al termine dei Mondiali di Messico 1986.  &nbsp;La nazionale Scirea partecipa ai Mondiali del 1978 in Argentina dove gioca sette partite sfiorando l&rsquo;impresa; l&rsquo;Italia &egrave; l&rsquo;unica Nazionale in grado di battere i padroni di casa che alla fine del torneo si porteranno a casa la Coppa del Mondo. E&rsquo; una squadra bellissima quella allenata da Enzo Bearzot, che quattro anni dopo vincer&agrave; il Mondiale in Spagna in maniera trionfale. Scirea &egrave; uno dei leader silenziosi di quella squadra, che prende per mano l&rsquo;Italia nei momenti di difficolt&agrave; fino a condurla al successo; guida una grande difesa con personalit&agrave; straordinaria, e con una leggerezza tecnica tipica dei campionissimi. Nella finale di Madrid contro la Germania, lo troviamo nell&rsquo;area di rigore avversaria mentre fraseggia con un colpo di tacco insieme a un giovanissimo Beppe Bergomi, poi serve a Tardelli l&rsquo;assist per il raddoppio azzurro! Le immagini dell&rsquo;epoca lo ritraggono a fine partita nei festeggiamenti; stappa una bottiglia, la scuote, sorridendo annaffia i compagni con lo spumante. &Egrave; un frammento di storia italiana, il risveglio di un Paese dopo un periodo difficile, trascorso tra crisi economiche, lotte di classe e anni di piombo.&nbsp;  I successi in bianconero Quando Scirea diventa campione del Mondo ha gi&agrave; vinto con la Juve cinque scudetti, una coppa Italia e una Coppa Uefa conquistata contro gli spagnoli l&rsquo;Atletico Bilbao. Al termine della stagione successiva al Mondiale eredita dal suo amico Dino Zoff la fascia di capitano della squadra bianconera. Sar&agrave; lui ad alzare al cielo la Coppa delle Coppe vinta a Basilea contro il Porto nel 1984. E nel gennaio del 1985 alza a Torino il trofeo della Supercoppa Europea vinta contro il Liverpool. Sar&agrave; ancora lui a prendersi la responsabilit&agrave; di parlare al popolo juventino nella notte pi&ugrave; drammatica della storia quando - all&rsquo;Hysel di Bruxelles - muoiono 39 tifosi bianconeri dopo i vile assalto degli hooligans del Liverpool. &ldquo;Non rispondete alla provocazioni, restate calmi: giochiamo per voi&rdquo;. La Juve gioca, e vince la Coppa dei Campioni contro gli inglesi. Poi si prende anche la Coppa Intercontinentale vinta ai rigori contro i sudamericani dell&rsquo;Argentinos Juniors.&nbsp;&nbsp;  Il termine della carriera I successi con la Juventus continuano ad arrivare anche in Italia, con altri due titoli nazionali (1984 e 1986) prima di tornare a giocare il terzo Mondiale per difendere il titolo vinto in Spagna dalla Nazionale. Ma in Messico, l&rsquo;Italia di Bearzot non riesce a confermarsi, e viene eliminata agli ottavi di finale dalla Francia. E&rsquo; questa l&rsquo;ultima partita di Gaetano Scirea con la maglia azzurra: 78 presenze e 2 reti. E un assist al Santiago Bernabeu che vale il terzo titolo mondiale: Eroici! In carriera non gli fu difficile vincere tutto quello che un calciatore avrebbe potuto vincere: Mondiale, Coppa dei Campioni, Coppa Uefa, Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea. E poi sette Scudetti e due Coppe Italia. Dopo aver appeso gli scarpini al chiodo entr&ograve; a far parte dello staff tecnico della squadra bianconera. Un tragico incidente automobilistico, avvenuto in Polonia il 3 settembre 1989, ne caus&ograve; la prematura scomparsa. Il giorno dei funerali l&rsquo;Avvocato Gianni Agnelli trascorse l&rsquo;intera omelia in piedi, per rendere omaggio all&rsquo;uomo che meglio di ogni altro aveva saputo rappresentare lo stile Juve. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Nato a Cernusco sul Naviglio il 25 maggio del 1953 e morto tragicamente a soli 36 anni, &egrave; stato un campione esemplare sia in mezzo al campo che fuori. Difensore dalla classe cristallina, con ila Juve e con la nazionale ha vinto tutto

Gaetano Scirea, l'eroe bianconero e... azzurro

         Gaetano Scirea avrebbe compiuto 70 anni il 25 maggio 2023. Il Cuoio lo racconta nel suo podcast insieme a un grande narratore di quegli anni, conoscitore di calcio, maestro di giornalismo: Darwin Pastorin. Ne esce un racconto sincero e commosso di un campione dentro e fuori dal campo, un uomo amato della vita e delle cose che la rendono preziosa, una mente mai banale, un calciatore straordinario.       

Il mitico numero 6 della Juventus e della Nazionale raccontato da Darwin Pastorin nel podcast de Il Cuoio

Podcast: Eroe in bianconero, leggenda azzurra: Gaetano Scirea per sempre

        Gli anni di due come loro, nella stessa epoca e nel medesimo campionato, con i gesti tecnici di entrambi esibiti nei novanta minuti di una stessa partita, hanno rappresentato il meglio che la Serie A abbia potuto offrire nel corso della sua intera storia. Il bello &egrave; che non c&rsquo;erano loro due soltanto, ma coabitavano nel campionato italiano tutti i pi&ugrave; grandi, d&rsquo;Europa e del Sudamerica. Di loro due, per&ograve;, anche in ragione del colore delle maglie che indossavano, possiamo dire che oltre a essere grandi fra i grandi erano due paradigmi, non soltanto calcistici. Due modelli, due prototipi che facevano deambulare sul rettangolo verde, con velocit&agrave; e ritmi differenti, tutta una serie di contrapposizioni etniche, storiche, folcloristiche.&nbsp; Maradona, Platini e le storie musicali Cantava Antonello Venditti, in uno dei suoi pezzi pi&ugrave; datati e immeritatamente meno conosciuti, che in fondo &ldquo;Torino vuol dire Napoli che va in montagna&hellip;&rdquo;; &ldquo;Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato&rdquo; risponderebbe Fabrizio De Andr&eacute;, che in napoletano ha saputo cantare e che aveva le radici in Piemonte, oltre ad aver ammirato con la maglia del suo amato Gigi Meroni, prima che quest&rsquo;ultimo andasse a Torino per diventare la farfalla granata.&nbsp;Divagazioni, per le quali ci perdonerete; ghirigori dialettici come corrispettivo di quelli tecnici, espressi a un livello sublime, che in campo esibivano Michel Platini e Diego Armando Maradona, vale a dire Apollo e Dioniso, entrambi rappresentanti di un tempo in cui il campionato italiano era l&rsquo;Olimpo del football mondiale.&nbsp;  Le Roi Michel Platini, il pupillo dell'Avvocato Agnelli Arrivato in Italia per la stagione 1982-1983, Michel Platini aveva lo sguardo, il profilo, persino la pettinatura francese. S&rsquo;era fatto gi&agrave; conoscere in Europa prima con il Nancy, poi con un grande Saint-&Eacute;tienne; nel mondo con la fortissima nazionale transalpina, che probabilmente avrebbe meritato di approdare in finale al Mondiale spagnolo del 1982, della quale era gi&agrave; uno dei leader indiscussi. Torino era la citt&agrave; ideale per lui, come non lo sarebbero state n&eacute; Roma, n&eacute; Milano; forse paradossalmente sarebbe stata adatta di pi&ugrave; Napoli, che all&rsquo;occorrenza da rispolverare la sua altezzosit&agrave; culturale e il suo passato filosofico da avamposto illuminista tanto caro alla memoria dei nostalgici di Vico e Pietro Giannone.&nbsp;Ostentava, in campo, una corsa che era quasi pi&ugrave; una corsetta: apparentemente indolente, quasi rilassata diremmo. Spesso l&rsquo;istante in cui appariva pi&ugrave; avulso dal contesto dell&rsquo;azione era proprio quello in cui aveva gi&agrave; razionalizzato il modo, quasi sempre sublime, con il quale le avrebbe dato senso, o addirittura conclusione, quando se ne faceva carico. Pi&ugrave; grande della sua classe Platini ha avuto una cosa soltanto, che fungeva da moltiplicatore della classe stessa: la innata razionalit&agrave; in nome della quale metteva ogni sua giocata sopraffina al servizio dello sviluppo della manovra. Tra le sue tante definizioni, Apollo era anche il dio dell&rsquo;intelletto e della profezia: profetica sapeva essere sovente l&rsquo;intelligenza calcistica del fuoriclasse francese; l&rsquo;aristocratica linearit&agrave; delle sue giocate, dei suoi lanci che decollavano con la nitidezza con la quale raggiungevano il destinatario; dei suoi calci di punizione per i quali al termine della breve rincorsa il pallone pi&ugrave; che impattato dallo scarpino sembrava soffiato con parabola ad arco, come una piuma.&nbsp;  Maradona, il Dio che fece impazzire Napoli Dioniso era, invece, fondamentalmente il dio del delirio mistico: esiste forse una definizione pi&ugrave; efficace per sintetizzare ci&ograve; che Diego Maradona ha portato a Napoli sin dal suo arrivo (dal suo avvento?) sotto il Vesuvio nella stagione 1984 - 1985. &ldquo;Si yo fuera Maradona, vivir&iacute;a como &eacute;l..." Perch&eacute; nessuno l&rsquo;ha detto meglio di Manu Chao; nessuno meglio di lui l&rsquo;ha saputo spiegare, con un po&rsquo; di versi che sembrano parlare del calciatore, mentre invece stanno assolvendo l&rsquo;uomo, come se non ci fosse pi&ugrave; bisogno di perdonargli nulla.&nbsp;Forse perch&eacute; soltanto un irregolare pu&ograve; essere in grado di raccontarne un altro; o, forse, perch&eacute; ci sono uomini che riescono a rimanere pi&ugrave; grandi del proprio destino; equilibristi sul filo sottile delle proprie debolezze, come i rimbalzi di un pallone che sembra stia l&igrave; l&igrave; per cadere e invece non cade mai. Pi&ugrave; di due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, la sua &ldquo;predestinazione partenopea&rdquo; la racconta un episodio apparentemente marginale: un giorno d&rsquo;inverno ad Acerra, con l&rsquo;erba sepolta dal fango e gli spogliatoi che non si capiva quali e dove fossero.&nbsp;Il Napoli si scalda in mezzo alle macchine e ai furgoni degli ambulanti, con la maglia di tessuto grosso, sponsor Cirio.&nbsp;Maradona saltella e scuote i fianchi, bambini imbacuccati gli posano accanto per lo scatto che terranno nel portafogli tutta la vita. L&rsquo;amichevole &egrave; stata organizzata da Pietro Puzone, compagno di squadra, che da quelle parti &egrave; nato e che conosce la famiglia del ragazzino malato a cui andranno i soldi dell&rsquo;incasso.&nbsp;Ferlaino ne farebbe volentieri a meno, per paura che qualcuno dei suoi si faccia male, Maradona in testa; i Lloyds di Londra, presso i quali il dieci &egrave; assicurato, glielo vietano e lui paga una penale pur di giocarla tutta, quell&rsquo;amichevole, affondando i contrasti, prendendosi la palla in scivolata e portandosela appresso come un barboncino bianco da tenere al riparo dagli schizzi e dall&rsquo;acqua marrone, da tutta quella merda che pu&ograve; essere la vita, quando piove forte in periferia.&nbsp;In un mondo in cui quasi tutti si sbattono per tentare di nascondere quello che sono, Maradona non fece altro che mostrarsi per ci&ograve; che &egrave; sempre stato, come quella volta su un campetto di Acerra, con la gente che si sent&igrave; al centro del mondo per novanta minuti e lui che poteva soltanto giocarla tutta, quella partita, senza alternative.        

Quando Michel si confrontava con Diego e il campionato diventava un vero spettacolo: dal 1984 al 1987 Juventus-Napoli il top

Maradona contro Platini, le sfide da leggenda

        Con il suo temperamento a dir poco tenace, un&rsquo;aggressivit&agrave; sul campo fuori dal comune e il suo look iconico, con le treccine in testa e gli occhiali sul volto, Edgar Davids &egrave; senza dubbio alcuno una delle figure pi&ugrave; iconiche di quel calcio a cavallo tra i due millenni che per molti ha rappresentato uno degli apici della storia di questo sport. Mentre quella dei dreadlocks &egrave; una scelta puramente estetica, la particolarit&agrave; di giocare con degli occhiali protettivi gli viene imposta nel 1998, quando si opera per un glaucoma. Come dir&agrave; lui stesso, probabilmente ad un certo punto della sua carriera avrebbe potuto farne anche a meno, ma erano ormai diventati un tratto incredibilmente distintivo, oltre che una sorta di talismano.&nbsp;  Davids, dal Suriname all&rsquo;Olanda Nato in Suriname il 13 marzo del 1973, quando lo stato sudamericano era a tutti gli effetti una colonia dell&rsquo;Impero Olandese, si trasferisce da bambino con tutta la famiglia in un sobborgo a nord di Amsterdam, dove inizia a dare i primi calci ad un pallone. La rete di scouting dell&rsquo;Ajax non ci mette troppo ad accorgersi di lui: entra nell&rsquo;academy dei Lancieri e nel 1991, ad appena 18 anni, esordisce in Eredivisie. Appare subito evidente a tutti che si tratti di un calciatore fuori dal comune: nonostante non fosse un gigante (non arriva neanche al metro e settanta), fa dell&rsquo;aggressivit&agrave; e della prestanza fisica il suo punto di forza. Giocatore estremamente carismatico dotato di un ottimo mancino, verr&agrave; soprannominato da Van Gaal anni dopo &ldquo;Pitbull&rdquo;, proprio per il suo temperamento in mezzo al campo. Nonostante ci&ograve;, non era un mediano incontrista tutto legna e niente fioretto, si contraddistingueva anche per un pi&ugrave; che discreto tocco di palla oltre che per una certa eleganza nei movimenti. Un giocatore completo, unico, che infatti in Olanda non rimane moltissimo. Giusto il tempo di mettere in bacheca tre campionati, una Coppa Uefa, una Supercoppa Europea, una Coppa Intercontinentale e una Champions League, che vince nella finale di Vienna contro il Milan. Per un curioso caso del destino, si trasferir&agrave; proprio nel capoluogo lombardo, vestendo la maglia rossonera nella stagione 1996/97.  Gli anni italiani e le controversie&nbsp; &ldquo;Era l'avversario che mi piaceva di pi&ugrave;. Lui mi dava una botta e io mi alzavo senza dire nulla. Io gli davo una botta e lui si alzava senza dire nulla. Lui a sinistra, io a destra: ci scontravamo sempre&rdquo; dir&agrave; di lui molti anni dopo Matias Almeyda, un altro che al centro del campo la gamba non la tirava mai indietro.  Il temperamento burrascoso dell&rsquo;olandese per&ograve; &egrave; stato per tutto il corso della sua carriera un&rsquo;arma a doppio taglio. Al Milan rimane poco, probabilmente per dissidi con allenatore e spogliatoio (celebre fu la definizione di &ldquo;mela marcia&rdquo; di Costacurta) e approda alla Juventus per 9 miliardi di lire. Mai affare fu migliore per i bianconeri: Davids passa a Torino i migliori anni della sua carriera. Nelle stagioni con la Vecchia Signora vince tre volte il campionato italiano e arriva due volte in finale di Champions League, diventando uno dei giocatori pi&ugrave; amati di tutta la storia bianconera. Intanto diventa anche una colonna portante della nazionale olandese, con cui disputa il Mondiale del 1998 e gli Europei del 1996, del 2000 e del 2004. Dopo gli anni in bianconero inanella una lunga serie di brevi esperienze tra Barcellona, Inter, Tottenham, Crystal Palace e Ajax. Poi nel 2012, dopo due anni di inattivit&agrave;, diventa allenatore giocatore del Barnet, squadra di Non-League dove gioca gratuitamente. Lo fa per la gente, cosa che lo ha sempre contraddistinto, come quando negli anni alla Juve, nonostante fosse un calciatore di fama internazionale, si fermava per giocare se vedeva qualcuno con un pallone in qualche parcheggio, lasciando incredulo il suo compagno di squadra Zidane.  &nbsp;       

Nato in Suriname il 13 marzo del 1973, grazie al suo look stravagante e alla sua grandissima prestanza fisica, rappresenta uno dei calciatori pi&ugrave; iconici di sempre. Dopo aver vinto tutto con l'Ajax, in Italia vest&igrave; le maglie di Milan, Juventus e Inter

Edgar Davids, il "Pitbull" che giocava per la gente

        Ascolta il podcast e clicca sul tasto segui    Podcast de Il Cuoio dedicato a Juventus-Sampdoria e al doppio ex Domenico Marocchino. Tornante, protagonista negli anni Ottanta, ha indossato le maglie di Cremonese, Atalanta, Juventus, Sampdoria e Bologna. Un patrimonio di ricordi, ma soprattutto di saggezza. Quello di Marocchino &egrave; uno sguardo romantico al calcio d&rsquo;altri tempi e disilluso rispetto a quello di oggi.  Buon ascolto con il podcast intervista a Domenico Marocchino con Stefano Cocci e Paolo Valenti de Il Cuoio.       

Chiacchierata a 360 gradi con il tornante bianconero degli anni Ottanta: ex Samp, sempre tifoso della Vecchia Signora

PODCAST – Marocchino: “Il calcio oggi è paranoico, per la Juventus sogno Osimhen”

        C'era una volta un numero 9 che marcava il centravanti avversario. A fine carriera trov&ograve; poi un posto nella filiale romana della FIAT e cos&igrave;, integrando i relativi risparmi con lo stipendio come un impiegato qualsiasi, mise su famiglia. Ebbe due figli: Stefano e Sandro (s&igrave;: &ldquo;'cccezionale! proprio lui!&rdquo;). Che strana storia &egrave; questa? Ottimo mediano della Juventus due volte Campione d'Italia nei primi anni '50, Alberto Piccinini &egrave; entrato nella storia del calcio italiano passando dalla porta principale. Ma pure da quella di servizio. Fu quel geniaccio di Gipo Viani, capomastro degli artigiani del calcio italiano, a farcelo entrare di soppiatto quando i due lavoravano per la Salernitana.  Piccinini, lo stopper mascherato da bomber Capiamo il senso per cui un giocatore schierato con il numero 9 dovesse marcare il centravanti avversario. Due parole: Metodo e Sistema. Il Metodo era il prudente e camaleontico gioco a zona tipico delle squadre italiane nel primo dopoguerra. I ritmi vertiginosi e le marcature a uomo del secondo, proveniente dalla Gran Bretagna, dopo il 1945 erano oramai di moda anche in Italia. Gipo Viani, artigiano del pallone diabolico e maudit, prese il meglio dalle due idee e schier&ograve; una Salernitana da combattimento. Per salvare la pelle - non ci riuscir&agrave; per un soffio - Davide doveva sempre dar battaglia a Golia. Un trucchetto fra tanti consisteva nel dare la maglia numero 9 al mediano Piccinini. Per due ragioni. Mandare in tilt l'ottuso sistema di marcature a uomo del Sistema: il numero 5 doveva seguire il 9 avversario ovunque andasse... ma se questi non stazionava in attacco, che fare? Non solo. Quando erano gli avversari ad avanzare Piccinini francobollava la boa avversaria, permettendo cos&igrave; al compagno centromediano di arretrare in difesa. Questi, oppure un terzino, potevano essere liberi di spazzare l'area senza compiti fissi di marcatura. Quel furbacchione di Gipo brevett&ograve; la formula con il di nome &ldquo;Vianema&rdquo;. Ma tanti come lui, dentro e fuori l'Italia, stavano sperimentando il cosiddetto Catenaccio.  Alberto Piccini e le vittorie alla Juventus Alberto Piccinini &egrave; stato uno dei migliori giocatori italiani a cavallo tra gli anni '40 e '50. Nato a Roma nel 1923 (&ldquo;in mezzo a campo Testaccio&rdquo;), cresciuto nelle giovanili della sua squadra del cuore non ebbe tuttavia mai la possibilit&agrave; di debuttare con i grandi. Scaricato alla Salernitana, il giovane Alberto ebbe la fortuna di incontrare Gipo. Si merit&ograve; dunque la chiamata del Palermo sempre nella massima serie. Poi il salto in alto. A Torino l'industrial casa degli Agnelli, pi&ugrave; accorta di quella reale dei Savoia, voleva rinverdire i fasti juventini degli anni '30. Lontano oramai riecheggiava il mito dei cinque Scudetti di Madama... Il rampollo Giovanni Agnelli ne soffriva. Vincere era l'unica cosa davvero importante! Fatto solenne giuramento, Gianni divent&ograve; sire e prese le redini della zebra di famiglia. Complice una tragica botta del destino, che disintegr&ograve; l'invincibile Grande Torino sulla collina di Superga, nel 1950 la Juventus di Jesse Carver s'appropri&ograve; subito del tricolore. Piccinini era il meccanico della potente macchina (100 gol in 38 gare: &ldquo;la Juve pi&ugrave; spettacolare di sempre&rdquo; secondo Boniperti) messa a punto dall'inglese. A seconda dell'equilibrio garantito dal centrocampista romano, e dall'altro mediano Mari, la motonave imbarcava acqua come nel clamoroso 1-7 contro il rampante Milan oppure la sparava violentemente sull'avversario. Praest, Boniperti e Hansen pensavano ai gol.  Due anni dopo ecco il bis, superato l'interregno del primo Milan &ldquo;Gre-No-Li&rdquo; (Gren, Nordahl e Liedholm). Lo zoccolo duro della Juventus era pi&ugrave; o meno lo stesso del recente passato. Diverso invece lo stile di gioco. Salutato Carver, nel 1952 i bianconeri celebravano il nono scudetto con la leggenda danubiana Sarosi in panchina, fautore di un calcio meno ossessivo e pi&ugrave; elegante di quello del predecessore inglese. Questi sono stati &ldquo;gli anni pi&ugrave; belli della mia vita - confesser&agrave; anni dopo Piccinini - ho giocato in bianconero 104 partite: due Scudetti e solo nove sconfitte&rdquo;. Era mio padre Per il centrocampista, che indoss&ograve; in quegli anni pure la maglia azzurra, fu l'apogeo. Poi inizi&ograve; il declino. La scelta di lasciare la Juve per il Milan a posteriori fu sbagliata. Un solo difficile anno in rossonero, quindi il ritorno a Palermo a 31 anni. Ecco il crack: Piccinini si ruppe il ginocchio. &ldquo;Fine della carriera e fine dei ricchi anche se non ricchissimi guadagni&rdquo;, ricordava sconsolato l'impiegato della FIAT, poco dopo il ritiro. Piccinini smise di giocare a ridosso degli anni del &ldquo;miracolo economico&rdquo;. Di l&igrave; a breve anche in Italia sarebbe montata la panna della societ&agrave; dei consumi. Il calcio, partecipando alla grande abbuffata, da rito sacro sarebbe divenuto allora sempre pi&ugrave; un semplice spettacolo. Il gioco irriverente somigliava oramai a un'industria burocratizzata. Sandro Piccinini, noto giornalista sportivo e secondogenito di Alberto, qualche anno fa ricordava come il padre si fosse sempre rammaricato di aver lasciato la Juventus per accettare i milioni del Milan. &ldquo;Se ne pentir&agrave; Alberto&rdquo;, gli disse Gianni Agnelli, che lo conged&ograve; non pareggiando l'offerta dei rossoneri. Lo riabbraccer&agrave; con riconoscenza alla FIAT al termine della carriera. Alla Juventus, i soldi un tempo avevano un valore diverso rispetto a quello che gli viene dato oggi.        

Vinse due scudetti con la Juventus e fu uno dei protagonisti del &ldquo;Vianema&rdquo; di Gipo Viani ai tempi della Salernitana. Il pap&agrave; del noto giornalista Sandro nasceva il 25 gennaio 1923

Alberto Piccinini, vita di un mediano che divenne impiegato

        I giocatori del periodo prebellico nelle varie classifiche all-time vengono spesso trascurati: un po&rsquo; perch&eacute; non si hanno molti filmati a riguardo, un po&rsquo; perch&eacute; forse lo si considera un calcio troppo &ldquo;primitivo&rdquo;. Gianpiero Combi &egrave; uno dei pochi calciatori che emerge da questa sottovalutazione, poich&eacute; che si parli di Juventus, di Nazionale oppure degli estremi pi&ugrave; forti di sempre, il suo nome &egrave; sempre menzionato. La Vecchia Signora Gianpiero nacque a Torino il 20 novembre 1902; il suo amore per il calcio era talmente forte fin da ragazzino che costrinse i genitori, che lo volevano coinvolto nella loro ditta di liquori, a spedirlo in collegio. Gianpiero non si scoraggi&ograve;, anzi, lontano dalle influenze paterne, si propose al Torino; il provino non and&ograve; per niente bene tanto che la compagine granata lo scart&ograve;; nonostante la giovane et&agrave; la determinazione non mancava di certo a Combi e cos&igrave; tent&ograve; con l&rsquo;altra squadra della citt&agrave;: la Juventus. A quel tempo i ruoli in campo non erano &ldquo;fissi&rdquo; come nel calcio odierno, cos&igrave; poteva capitare di vedere Combi passare dalla porta all&rsquo;ala oppure agire come centro-mediano. Nel campionato 1921-22 venne aggregato come terzo portiere, ma molto presto divenne il secondo; finalmente il 30 ottobre esord&igrave; contro lo Spezia nella partita terminata sul risultato di 2-2. Nel giro di qualche anno divenne non solo il numero 1 della Juve, ma anche quello della Nazionale; con i bianconeri visse il magico quinquennio d&rsquo;oro, quello che port&ograve; in dote altrettanti scudetti tra il 1930 e il '35. In quegli anni il terzetto difensivo formato da Combi-Rosetta-Calligaris era riconosciuto a livello internazionale come il pi&ugrave; forte al mondo. Vari giornali dell&rsquo;epoca definirono il Nostro, molto bravo tra i pali e un po&rsquo; meno nelle uscite; quando Gianpiero mor&igrave;, Guido Masetti, suo amico e rivale dichiar&ograve;: &rdquo;Anche io avessi avuto davanti Rosetta e Calligaris non sarei mai uscito dalla porta&rdquo;.  Il nostro protagonista venne soprannominato &ldquo;Fusetta", in piemontese &ldquo;petardo&rdquo;, per la straordinaria esplosivit&agrave; fisica e per l'incredibile coraggio. Proprio questa qualit&agrave; lo costrinse spesso a infortuni: nella stagione 1925-26 nel match decisivo per l&rsquo;assegnazione del titolo contro l&rsquo;Alba Roma (22 agosto 1926) ebbe un brutto infortunio al braccio destro, ma con coraggio decise di restare in campo, riuscendo perfino a mantenere la porta inviolata; il giorno seguente sulla Gazzetta dello Sport Combi venne descritto come: &rdquo;Il magnifico portiere torinese che dolorante, volle rimanere al suo posto servendosi solo del braccio sinistro&rdquo;. Nel 1930-31 un altro grave incidente lo tenne fermo ai box per quasi l&rsquo;intera annata. Il giovane Felice Borel, astro nascente dell&rsquo;attacco bianconero, disse alla stampa: &rdquo;Io giocavo all&rsquo;attacco e a Gianpiero voltavo quasi sempre le spalle, ma sapevo che era l&igrave;, lo sentivo distintamente dietro di me ed eravamo sicuri che le puntate degli avversari nella nostra area di rigore si sarebbero arrestate sotto la nostra porta, perch&eacute; lui era tra i pali&rdquo;. L&rsquo;avventura bianconera da giocatore si concluse nel 1934 con e 5 scudetti in bacheca.&nbsp;  Gianpiero Combi, il primo portiere campione del mondo con l'Italia La storia con la squadra azzurra non part&igrave; sotto buoni auspici: il 6 aprile 1924 a Budapest l&rsquo;Italia sub&igrave; una delle umiliazioni pi&ugrave; pesanti della sua storia: Ungheria-Italia 7-1 e Combi era il &ldquo;povero&rdquo; numero uno della disfatta. Fortunatamente uno con il suo carattere non si fece di certo buttare gi&ugrave; da una sconfitta, seppur cos&igrave; bruciante, e in effetti nel 1928 arriv&ograve; subito un bronzo alle Olimpiadi di Amsterdam. La Nazionale fu battuta solamente dal team pi&ugrave; forte in quel momento, l&rsquo;Uruguay, che si aggiudic&ograve; l&rsquo;oro olimpico e due anni dopo avrebbe conquistato il primo Campionato del Mondo. Nel 1930 l&rsquo;Italia decise di non partecipare alla Coppa Rimet e cos&igrave; per Gianpiero sembravano svanire le possibilit&agrave; di vincere quel trofeo. Poco prima del Mondiale 1934, infatti, decise di chiudere con il calcio agonistico. Il titolare designato per quella manifestazione era Carlo Ceresoli, allora estremo dell&rsquo;Ambrosiana &ndash; Inter, ma durante la preparazione su un tiro di Pietro Arcari si ruppe il braccio; gli altri due portieri erano Giuseppe Cavanna e Guido Masetti, ma il CT Vittorio Pozzo non esit&ograve; a richiamare il suo fido Fusetta, che ovviamente non pot&eacute; che accettare con grande entusiasmo la proposta che gli avrebbe consentito di confrontarsi con il gotha del ruolo: Frantisek Planicka e Ricardo Zamora.  Combi non solo partecip&ograve;, ma fu il capitano della selezione italiana: l&rsquo;immagine iconica e unica nella storia della Coppa del Mondo di Planicka e Combi che si stringono la mano prima del calcio d&rsquo;inizio della finale rimane un&rsquo;istantanea indimenticabile per il ruolo. La finale fu molto tesa e nonostante il Nostro sapesse che quella sarebbe stata la sua ultima partita da giocatore, non si fece condizionare, anzi si erse a protagonista con grandi parate, emulando il suo leggendario avversario. L&rsquo;Italia vinse per due reti a uno, grazie ai gol di Orsi e Schiavio laureandosi per la prima volta campione del mondo. Gianpiero Combi alla sua ultima partita da professionista, da capitano, alz&ograve; al cielo il trofeo alimentando ancor di pi&ugrave; la sua leggenda.  Il commosso ricordo del CT Una volta conclusa la sua carriera, rimase nell&rsquo;orbita della societ&agrave; bianconera, nel 1946-47 allen&ograve; nel precampionato prima di lasciare il posto a Renato Cesarini. Purtroppo, pochi anni dopo, il 13 luglio 1956, in villeggiatura sulla Riviera ligure, venne colto da un infarto. Mor&igrave; il 12 agosto e durante il funerale Vittorio Pozzo gli riserv&ograve; un commosso ricordo: &rdquo;&Egrave; tutta una serie di pagine della vita nostra, vissute e scritte assieme, che Gianpiero porta con s&eacute;. Tutte le cause a cui fu chiamato le ha servite con fedelt&agrave; e onore&rdquo;. La Juve nel 1956 intitol&ograve; il campo d&rsquo;allenamento della prima squadra a Gianpiero. Nel 2011, con l&rsquo;inaugurazione dello Juventus Stadium, gli &egrave; stata dedicata una delle cinquanta stelle all&rsquo;interno di esso.  Nella rivista "Il Campione" del 19 novembre 1956 il giornalista Bruno Roghi lo defin&igrave; cos&igrave;: &ldquo;&hellip;ai tempi del suo massimo splendore atletico ricordo d&rsquo;averlo paragonato all&rsquo;orso bruno: bonario, tranquillo, ma quando stringe strozza&hellip;&rdquo;. Nella stessa rivista sei esperti tra cui Gianni Brera e Silvio Piola stilarono una classifica dei numeri uno pi&ugrave; forti fino a quel momento e Gianpiero fin&igrave; al terzo posto dietro ai &ldquo;soliti due&rdquo;. Gianpiero non &egrave; stato soltanto uno dei portieri pi&ugrave; forti nella storia, ma anche un precursore del ruolo, con il suo look: maglioni di sobria fantasia, cinture ai pantaloncini e ginocchiere; in pi&ugrave; fu uno dei primi a studiare i tiratori avversari dagli 11 metri e nella sua carriera, in effetti, ne ipnotizz&ograve; diversi. Oggi molto probabilmente non approverebbe del tutto l&rsquo;evoluzione che ha avuto il suo amato ruolo, ma da signore quale era non credo avrebbe fatto parole a riguardo; forse per&ograve; da lass&ugrave; parlando con Planicka e Zamora potrebbe avere la tentazione di intervenire per insegnare al meglio il ruolo pi&ugrave; bello del mondo.         

Campione del Mondo 1934, il numero uno azzurro &egrave; considerato, insieme a Planicka e Zamora, il miglior portiere dell&rsquo;anteguerra. Nasceva a Torino il 20 novembre del 1902

Gianpiero Combi: i trionfi con Juve e Nazionale lo resero immortale

        Massimiliano Allegri &egrave; solito dire che il calcio &egrave; "molto semplice": c'&egrave; chi segna, chi fa assist e infine c'&egrave; chi corre. Ha ragione. La furia atletica non &egrave; per tutti.Cervello finissimo, in grado di far correre il pallone e gli altri al proprio posto, Pasquale Vivolo capit&ograve; nel posto giusto al momento sbagliato. Che carriera avrebbe avuto in Nazionale e nella Juventus questo ragazzo classe 1928, nato nel napoletano ma cremonese d'adozione, con un passato anche nella Lazio, se solo si fosse ritrovato a giocare in Serie A un decennio pi&ugrave; tardi, invece dei confusionari anni '50 del calcio nostrano? &nbsp; Alter ego di Boniperti Allora nella Penisola andavano di moda il WM inglese e i tecnici stranieri: vorticoso gioco sulle fasce, schemi collettivi e corse per tutti, nessuno escluso. Tale foga cinetica, scambiata per modernit&agrave;, si rendeva necessaria per sostenere difese pericolosamente sguarnite. Un'originale idea di calcio italico, dunque, lottava ancora per affermarsi: pi&ugrave; equilibrata di quelle esterofile e incline maggiormente a valorizzare il talento unico dei singoli.Stralciamo da L'Unit&agrave; del 18 ottobre 1954 una pagella dedicata a Pasquale, esemplare del suo stile di gioco. Un numero 9 che pensava da 10: un 9 e mezzo. "Vivolo non ha la taglia della mezzala, non possiede quel minimo di forza fisica, materiale, che un interno deve possedere. Un delizioso giocatore, senza dubbio, ma del quale &egrave; difficile poter stabilire l'impiego migliore". Il trequartista-centravanti di Brusciano si asteneva regolarmente dalla lotta, forte del privilegio della sua classe superiore.Si chiesero come schierare Pasquale, gli allenatori della Juventus, dove il giovane tifoso bianconero era arrivato nel 1949 dalla Cremonese, vincendo subito uno scudetto. Nel 1952 il bis, seppur con l'ingrato ruolo di titolare aggiunto. Tra il 1951 e il 1953 le stagioni migliori di Vivolo. Media-gol del periodo: 0,7. Bomberone John Hansen: 0,8. Sua Maest&agrave; Boniperti: appena 0,4. Stava nascendo forse una nuova stella, al fianco di John? Per non adombrare il sabaudo Giampiero, suo diretto concorrente nel ruolo, Vivolo fu piuttosto messo in lista trasferimenti, nonostante i 31 centri in 67 partite di campionato, e spedito prontamente alla Lazio per la modica cifra di 70 milioni. La rivalit&agrave; con l'amico di Barengo cost&ograve; a Vivolo anche il posto in Nazionale, che sfior&ograve; appena.  Divo laziale Roma per &ldquo;Bibi&rdquo; era inferno e paradiso. Lo conferma un giovane spadaccino della Polisportiva Lazio, la cui testimonianza &egrave; raccolta in &ldquo;Bagliori di gloria&rdquo;, libro dello storico Marco Impiglia dedicato agli schermidori biancocelesti: "Un giorno vidi entrare l&rsquo;ing. Zenobi con Vivolo, il famoso giocatore. Allora noi ragazzi, che avevamo interrotto un attimo per ascoltare il discorsetto di quei signori, ci demmo di gomito: Hai visto, c&rsquo;&egrave; Vivolo! Eravamo meravigliatissimi". L'Urbe tuttavia sapeva essere anche infernale, bruciata dall'ossessiva passione dei romani per il calcio. Pensate: il conte laziale Mario Vaselli - si legge su LazioWiki, l'Enciclopedia on-line biancoceleste - durante un'elettrica sfida a Napoli rifil&ograve; al flemmatico Vivolo un gran ceffone! Desiderava lottasse con maggior vigore. Oltre cento gare con i romani molte delle quali da capitano, e una trentina di reti in cinque stagioni, gli valsero comunque la fama. Nessun trofeo per&ograve;. Quella Lazio era squadra stralunata.Nel 1959, da un anno a Brescia, Vivolo lasci&ograve; il calcio. Poi fu abile imprenditore nell'amata Cremona. Nel 2002 giunse inaspettata la morte, prematura.  La foto autografata di Pasquale Vivolo ci &egrave; stata gentilmente concessa dall'Archivio fotografico Ivano Piermarini. Per le immagini del collage in copertina si ringrazia LazioWiki       

Un calcio meno dogmatico di quello degli anni '50 lo avrebbe esaltato. Il dualismo con Boniperti, poi la Lazio: storia di un campione mancato

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