        Essere Simone Perrotta. Potrebbe essere un titolo di un film. Perch&eacute; dietro a questo nome e cognome c&rsquo;&egrave; la storia di un ragazzo che &egrave; partito dal profondo Sud, dal centro sportivo Sant&rsquo;Agata di Reggio Calabria, per arrivare ad alzare a Berlino la Coppa del Mondo, passando da esperienze alla Juventus (una stagione) e alla Roma (nove anni di fila) ma anche in realt&agrave; pi&ugrave; piccole, vedi il Bari di Fascetti o il Chievo di Delneri. Anni formativi. Anche se &egrave; tutta una grande favola. Da attore (non) protagonista. Vedi il lancio per il primo gol di Cassano in Serie A ai tempi del Bari. A quel &laquo;mamma sono ricco...&raquo; poteva essere aggiunto in fondo &laquo;...grazie a Simone&raquo;. &ldquo;A volte ci scherziamo con Antonio. Lui dice che quel- lo &egrave; stato l&rsquo;unico lancio decente della mia carriera, io rispondo che l&rsquo;avrei potuta appoggiare la- teralmente quella palla&hellip;", ammette con un sorriso l&rsquo;ex centrocampista. Di pi&ugrave;. Quando Totti ha iniziato a fare l&rsquo;attaccante, a segnare a raffica da falso nove, aveva come spalla proprio Per- rotta, diciotto polmoni al servizio del capitano tra corse a vuoto, inserimenti spettacolari, gol, assist e quel ruolo di (falso) trequartista inventato da Spalletti che gli ha cambiato la carriera prima delle convocazioni per l&rsquo;avventura in Germania. Senza dimenticare la parentesi alla Juventus, &ldquo;l&igrave; al fianco di Zidane, Davids, Del Piero, Henry, Conte e tantissimi campioni&rdquo;. E poi l&rsquo;impegno attuale nel calcio, il sottofondo della sua vita: la gestione della Jem&rsquo;s Soccer Academy a Casal Palocco, i ruoli in Figc e Aic, cos&igrave; come il sostegno da vicepresidente alla Roma Calcio Amputati. Insomma, cuore e passione. Come al solito. Come ai tempi dell&rsquo;Olimpico. Perrotta, tutto inizia a Reggio Calabria.&ldquo;Avevo 14 anni e due offerte sul tavolo: dal Cosenza che era casa mia e dalla Reggina. Mio padre mi ha lasciato libero di scegliere e sono partito per Reggio Calabria. La testa ha detto cos&igrave;. L&rsquo;ambienta- mento non &egrave; stato semplice. Piangevo al telefono all&rsquo;inizio. Ma in fondo si stava bene, nel convitto c&rsquo;erano 50 ragazzi pieni di sogni. L&rsquo;esordio in prima squadra &egrave; stato un momento speciale&rdquo;. Poi nel 1998 arriva la chiama- ta della Juventus...  &ldquo;Impossibile da rifiutare. Ero contento anche perch&eacute; con parte dei soldi della mia cessione la Reggina ha rinnovato il Sant&rsquo;Agata. Ho giocato poco anche perch&eacute; facevo il militare, quindi mi allenavo solo a ridosso delle partite. Ma stare in mezzo a tanti campioni mi &egrave; servito per capi- re come funzionano le dinami- che di un grande club. E poi ho avuto per sei mesi Lippi e per al- tri sei mesi Ancelotti&rdquo;. Che annata &egrave; stata?  &ldquo;Siamo arrivati in semifinale di Champions contro lo United che poi ha vinto il trofeo. In campio- nato invece si andava meno forte. La concorrenza era impressionante: a centrocampo, tra gli altri, c&rsquo;erano Conte, Davids, Tudor e Deschamps. Sono comunque riuscito a ritagliarmi dei piccoli spazi&rdquo;. Zidane era davvero di un altro pianeta?&ldquo;S&igrave;. Era enorme fisicamente, elegante e unico. In campo ha fatto vedere il 50% di quello che ci faceva vedere in allenamento&rdquo;. Perch&eacute; non resta alla Juventus?&ldquo;Dovevo giocare con continuit&agrave;. E in compropriet&agrave; finisco al Bari con Fascetti, che faceva un calcio all&rsquo;antica, uomo a uomo. Resto per due anni, al termine dei quali retrocediamo. Alle buste vince il Bari, la Juve aveva altri progetti, ma non potevo rimane- re in B cos&igrave; scelgo il progetto del Chievo, di una neo promossa&rdquo;. E si vola...  "Delneri era all&rsquo;opposto rispetto a Fascetti come filosofia di gio- co. Ci ho messo un po&rsquo; a capire gli schemi che per&ograve; hanno funzionato da subito. Ci siamo di- vertiti parecchio&rdquo;. La Roma bussa alla sua porta nell&rsquo;estate del 2004...&ldquo;In Nazionale Totti mi diceva sempre &ldquo;quando vieni?&rdquo;. Beh, la telefonata giusta &egrave; arrivata e sono sbarcato a Roma&rdquo;. Altre offerte?  &ldquo;Mi voleva anche l&rsquo;Inter, mi seguiva da tempo&rdquo;. Non &egrave; stato subito amore con la Sud...&ldquo;Mi avevano introdotto nel mondo Roma come sostituto di Emerson. Ma io non ero quel genere di giocatore&rdquo;. Prandelli, Voeller, Delneri e Conti: la panchina era bollente.&ldquo;Era complicato. Io ero sommerso da critiche e ogni volta che toccavo palla venivo fischiato dal pubblico. Mi sono estraniato, leggevo poco i giornali e vedevo ancora meno tv&rdquo;. L&rsquo;anno dopo arriva Spalletti, ma lei inizialmente voleva andare via...&ldquo;In ritiro dissi a Spalletti che avrei accettato l&rsquo;offerta dell&rsquo;Everton. Ero pronto a partire. Ma lui blocc&ograve; la mia cessione. Mi disse: &ldquo;Vengo in guerra con te&rdquo;. Fino a dicembre continu&ograve; l&rsquo;andamento negativo, Spalletti era anche a rischio esonero. Poi cambi&ograve; tutto con il nuovo modulo". Totti falso nove e Perrotta trequartista perch&eacute; gli altri attaccanti erano fuori.  &ldquo;Proprio cos&igrave;. Vincemmo 11 partite di fila stabilendo un record. Andavamo a mille all&rsquo;ora&hellip;". Mesi intensi e la convocazione per il Mondiale in Germania.  &ldquo;Il pi&ugrave; grande traguardo della mia carriera &egrave; stato alzare la Coppa del Mondo insieme a Totti e De Rossi&rdquo;. I momenti pi&ugrave; belli dei nove anni alla Roma?&ldquo;Sono cos&igrave; tanti che non si possono racchiudere in poche parole. Non abbiamo vinto tanto ma eravamo una squadra vera fuori e dentro il campo&rdquo;. I pi&ugrave; forti?  &ldquo;In porta Doni, dietro Juan, a centrocampo De Rossi e Pizarro, in attacco Totti&rdquo;. Resta la ferita dello scudetto del 2010.&ldquo;Avevamo recuperato il gap dall&rsquo;Inter di Mourinho, che era fortissima. Contro la Sampdoria di certo non eravamo appagati. Ma, dopo un primo tempo fantastico, for- se uno dei migliori della stagione, sono arrivati quei due gol che han- no spento il nostro sogno&raquo;. La differenza tra Roma e Juventus?&ldquo;La gente. A Torino sei uno qualsiasi a meno che non ti chiami Del Piero, si suda, si vince e si torna subito a lavorare. A Roma ti fermano per strada facendoti sentire a volte il giocatore migliore del mondo. C&rsquo;&egrave; pi&ugrave; passione in tutto, nel bene e nel male&rdquo;. Si ritira dopo 346 presenze e 48 gol in giallorosso.&ldquo;Potevo chiudere la carriera negli Stati Uniti ma mio figlio all&rsquo;epoca aveva solo 10 anni. Tornando indietro sarebbe stato pi&ugrave; giusto partire all&rsquo;avventura".        

Cresciuto nella Juve, si impose in giallorosso grazie al tecnico di Certaldo: "Crisi risolta con Francesco falso nueve e io trequartista"

Simone Perrotta: "Quanti ricordi a Roma con Totti e Spalletti"

        Dategli una linea del fuorigioco fatta male o un rimpallo in area e lui vi ripagher&agrave; quasi sempre con un gol: Pippo Inzaghi, la fotografia dell'attaccante di razza. Compie cinquant'anni l'eterno ragazzo del pallone nostrano, pi&ugrave; ancora del suo "gemello" Christian Vieri, con quel fisico asciutto come se non avesse mai smesso. Mettetelo l&igrave; ancora oggi e vediamo se non segna, di nuovo, sfruttando il suo assurdo fiuto. Grazie Mondo, grazie Juve Filippo Inzaghi nasce a Piacenza, nessuno si sogna di chiamarlo cos&igrave; perch&eacute; Pippo &egrave; troppo pi&ugrave; bello, pi&ugrave; immediato, pi&ugrave; tutto. Debutta tra i pro con la squadra della sua citt&agrave;, poi inevitabilmente deve scendere di categoria, al Leffe, dove segna subito 13 gol in C1. A vent'anni &egrave; pronto di nuovo per la Serie B: lo prende il Verona, che scopre quell'attaccante elettrico in una squadra e in un campionato che visti con gli occhi di oggi sembravano pi&ugrave; una A2. Inzaghi va a bersaglio in 13 occasioni, l'Hellas si salva un po' col fiatone: davanti a lui in classifica cannonieri c'&egrave; gente come Bierhoff, Batistuta, Carnevale, Chiesa e Tovalieri.  Piacenza lo accoglie di nuovo, a quel punto &egrave; una stella della B: altri 15 gol, promozione in A e la sensazione di poter spiccare definitivamente il volo. Il Parma lo nota e lo prende, non &egrave; lontano da casa, ma lontano dal cuore. I Ducali hanno gi&agrave; sistemato l'attacco con Zola e il Pallone d'Oro, Hristo Stoichkov, e per SuperPippo non c'&egrave; quasi spazio. Si imbruttisce, a Parma, si infortuna pure; aspetta la chiamata giusta per ripartire, elettrico come sempre. Ci vuole l'Atalanta, un allenatore che ha fiuto per i giovani talenti come Emiliano Mondonico: nel 1997 Inzaghi &egrave; capocannoniere del campionato, addirittura, con 24 gol. Del tutto immarcabile, giocando per una provinciale. In coppia con l'imprevedibile fantasista Domenico Morfeo regala momenti di grande spettacolo, pur nella sua essenzialit&agrave;. Inzaghi infatti &egrave; "solo" il finalizzatore, veloce e rapace, non &egrave; un colosso ma i difensori non ci capiscono niente. Su di lui si fionda la Juventus, che sfrutta la corsia preferenziale con i bergamaschi e per 20 miliardi porta Inzaghi in bianconero. C'&egrave; da sostituire Christian Vieri, passato all'Atletico Madrid, e nulla di meglio del miglior marcatore della Serie A. In coppia con Del Piero semineranno il terrore nelle difese avversarie per almeno un anno, fino al gravissimo infortunio del numero 10 che lascia "orfano" a lungo Inzaghi. Intanto vince lo scudetto e sfiora la Champions League, perdendo in finale contro il Real Madrid.  Nell'estate 2001 un po' a sorpresa su Pippo si tuffa il Milan. Veste rossonero in un'operazione che comprende anche la cessione alla Juventus del terzino Cristian Zenoni. Sta per cominciare un decennio formidabile, sia per Inzaghi che per il Diavolo. Quella doppietta a Istanbul Dieta ferrea, gioco essenziale: minimalismo o meno, anche al Milan &egrave; difficile trovare qualcuno in grado di fermare Inzaghi. Si infortuna gravemente a un ginocchio durante una partita contro il Chievo, i rossoneri a fatica si qualificano per la Champions League ed &egrave; a quel punto che scocca l'amore tra SuperPippo e l'Europa. Non che prima ci fossero "screzi", ma con il Milan il livello di Inzaghi cresce a dismisura. Sembra costruito apposta per essere decisivo tra il marted&igrave; e il mercoled&igrave;. La cavalcata che porta i rossoneri a vincere la Champions nel 2003 in finale contro la Juve ha un solo vero protagonista ed &egrave; SuperPippo: nel primo girone di qualificazione inizia segnando 8 gol in 4 partite, poi "rallenta" ma fermandosi comunque a 12. In coppia con Shevchenko oppure come unico riferimento del cosiddetto "Albero di Natale" di Carlo Ancelotti, il 4-3-2-1 che ha fatto epoca, Inzaghi &egrave; una sentenza Come il buon vino, invecchiando migliora, sempre con l'Europa come palcoscenico. Bisogna centellinarlo, adesso, anche perch&eacute; gli infortuni cominciano a pesare. Altro capolavoro, nella stagione 2006-07, che il Milan inizia con i preliminari di Champions ad agosto. Inzaghi &egrave; andato in vacanza, ha appena vinto il Mondiale disputando appena 33 minuti (e un gol contro la Repubblica Ceca), ma richiamato all'ordine risponde presente. Gol alla Stella Rossa nel turno preliminare, in una Milano deserta, e i rossoneri sono di nuovo in tabellone. Pippo &egrave; l'uomo di coppa, il Milan se lo gode come mai prima di allora forse. Si sa che ogni occasione per lui &egrave; buona, per fare gol. Affiancato da un Kak&aacute; stellare, Inzaghi &egrave; una minaccia costante: la sua rete al Bayern, nel ritorno dei quarti di finale, &egrave; il manifesto del suo gioco, con quello scatto sul filo del fuorigioco assistito da un tacco di Seedorf. In finale col Liverpool, il capolavoro, nella rivincita della sfida del 2005 che aveva visto il Milan soccombere in maniera assurda ai rigori dopo essere andato avanti 3-0 (ma Pippo era infortunato). Il Diavolo stavolta trionfa, 2-1, ed entrambi i gol sono di Inzaghi: la prima &egrave; "una magata", un colpo di petto su punizione di Pirlo che spiazza Reina, il secondo &egrave; un film gi&agrave; visto, lo scatto sul filo del fuorigioco con gli inglesi che non ne hanno pi&ugrave; per salire, e il tocco morbido rasoterra su assist di Kak&aacute;. Trover&agrave; il tempo per segnare anche contro il Boca Juniors nella finale del Mondiale per Club, sempre nel 2007: l'ultimo titolo internazionale vinto con il Milan. In Italia alzer&agrave; ancora uno scudetto, nel 2011. Il ritiro, l'anno dopo tra le lacrime, con gol al Novara a San Siro per congedarsi. Milan di cui diventer&agrave; allenatore, con fortune alterne. &laquo;Non avrebbe dribblato nemmeno una sedia&raquo;, disse di lui Jorge Valdano, campione del mondo con l'Argentina e leggenda del Real Madrid. Mentre Cruijff proporr&agrave; una visione diversa: &laquo;In realt&agrave;, Inzaghi non sa proprio giocare a calcio. &Egrave; solo che sta sempre al posto giusto&raquo;. Chi aveva ragione? Nel dubbio meglio preparare il pallottoliere, per contare i gol di SuperPippo.&nbsp;        

Un attaccante leggendario, nato per segnare. Esploso all'Atalanta, poi la Juve e il passaggio al Milan. Campione del mondo con l'Italia nel 2006 pur giocando appena 33 minuti

Pippo Inzaghi, il Peter Pan del gol

        Chiamarla rivincita forse sarebbe eccessivo, ma l'importante in certi casi &egrave; non abituarsi troppo a perdere contro la stessa squadra: due mesi di tempo tra la finale di Champions League e la Supercoppa Italiana, tra fine maggio e inizio agosto 2003. Il primo trofeo al Milan contro la Juventus, il secondo al contrario: calci di rigore in entrambi i casi, a rendere pi&ugrave; gustoso il tutto. Juve-Milan, i cambi rispetto a Manchester Nel caldo atroce di quell'estate 2003 la Juventus campione d'Italia e il Milan vincitore della Coppa Italia, oltre che della Champions League, si sfidano il 3 agosto al Giants Stadium, vicino a New York. Ricordi agrodolci di Usa '94 per due squadre nel pieno del loro splendore, specialmente i rossoneri che vinceranno lo scudetto nel 2004 e andranno a un disastroso 0-4 a La Coruna nei quarti di finale da un possibile, chiss&agrave;, bis di Champions. Il mercato ha portato pochi cambi, soprattutto nella Juventus, un po' a sorpresa. Molti i volti nuovi tra i bianconeri, uno per ruolo in realt&agrave;. In difesa c'&egrave; Legrottaglie, strappato al Chievo, in mezzo Appiah dal Brescia e davanti Miccoli reduce da una grande annata al Perugia. Nel Milan l'unica novit&agrave; &egrave; il terzino destro, uno dei migliori al mondo: &egrave; Cafu arrivato a zero dalla Roma. Per il resto il Diavolo schiera la stessa formazione titolare di Manchester, nella sera della conquista della sesta Champions, tranne Abbiati che &egrave; titolare al posto di Dida e non la sua riserva. In panchina, di nuovo, Marcello Lippi e Carlo Ancelotti. In questo non &egrave; cambiato niente. &nbsp; Errore fatale di Brocchi In un'epoca di regole ancora poco unificate per gestire la faccenda tempi supplementari, la formula di quella Supercoppa prevede il Silver Gol: ovvero chi segna per primo nel primo tempo supplementare, se non cambia poi il risultato, pu&ograve; essere dichiarato vincitore senza che si giochi il secondo extra-time. Un po' contorto, ma si &egrave; visto anche questo. La partita viste le condizioni atmosferiche &egrave; perfino bella, con momenti altamenti spettacolari ma zero finalizzazione. Nel Milan si fa male Gattuso, sostituito nell'intervallo da Ambrosini; mentre Lippi capisce che il suo 4-2-3-1 &egrave; da riequilibrare mettendo Camoranesi per Miccoli. Supplementari e subito traversa di Zambrotta per la Juventus. Il silver gol &egrave; a un passo dal concretizzarsi quando al 105' Tacchinardi commette fallo su Ambrosini in area, rigore che Pirlo trasforma addirittura con un cucchiaio. Sembra finita, non ci sarebbe bisogno del secondo supplementare e invece Trezeguet in mischia pareggia. Sembra destino che queste due squadre debbano andare ai rigori di nuovo e cos&igrave; accade. Stavolta la Juventus &egrave; perfetta, forse perch&eacute; manca Dida: segnano Di Vaio, Trezeguet, Birindelli, Camoranesi e Ferrara, mentre per il Milan sbaglia Brocchi. Successo dunque per la Signora, in quello che sar&agrave; l'ultimo titolo vinto in Italia da Marcello Lippi, che di l&igrave; a un anno verr&agrave; scelto come commissario tecnico della Nazionale. Ottendendo anche in azzurro discreti successi... &nbsp;       

Il 3 agosto del 2003 la Supercoppa Italiana and&ograve; ai bianconeri ai rigori, a poche settimane di distanza dal trionfo rossonero nella finale di Manchester. Fu l'ultimo titolo vinto da Lippi in Italia

Juve-Milan e quella "rivincita" dopo la Champions

        Bergamo-Torino, solo andata. Spesso &egrave; andata cos&igrave;, dall'Atalanta alla Juventus, i migliori giovani a vestire il bianconero e da l&igrave; a spiccare il volo verso grandi traguardi. Una storia che risale agli albori del calcio italiano, ma che ha vissuto anche interferenze da parte di altri club. Una su tutti, l'affare concluso nell'estate del 1986 tra il Milan e Roberto Donadoni, gemma dell'Atalanta destinata al rossonero. Atalanta-Juve, quanti affari: da Fenili a Tavola Camillo Fenili &egrave; il pioniere di tutte queste trattative andate a buon fine: &egrave; il 1925 e questa ala guizzante, nata e cresciuta a Bergamo, viene acquistata dalla Juventus con cui esordisce in Serie A. Solo quattro presenze per lui in totale in bianconero ma, come si dice, il dado &egrave; tratto. Passano oltre vent'anni e nella stessa sessione di mercato arrivano da Bergamo a Torino ben due giocatori, Francesco Cergoli e Mihaly Kincses. Cergoli &egrave; una mezzapunta nata in un paesino che oggi &egrave; in Slovenia e rimane alla Juventus dal 1947 al 1949. Kincses da attaccante si trasforma in centrocampista a tutto campo, ma dopo una sola stagione nel 1948 saluta la Juve e si trasferisce al Bari. La vera tratta privilegiata tra Bergamo e Torino sponda bianconera si apre negli anni Settanta, quando la Signora inizia a "saccheggiare" i migliori giovani italiani su piazza. Uno dei primi &egrave; anche uno dei pi&ugrave; grandi di sempre: Gaetano Scirea. Estate 1974, il ragazzo di Cernusco sul Naviglio inizia la sua avventura alla Juventus, dove diventer&agrave; capitano, leader immenso anche se silenzioso, libero di sublime classe ed eleganza. Gaetano Scirea, l'eroe bianconero e... azzurro  Due anni dopo tocca a un altro difensore (lombardo pure lui) trasformarsi in un tassello di una delle pi&ugrave; grandi Juventus di sempre. Antonio Cabrini da Cremona dopo una sola stagione all'Atalanta va a piazzarsi sulla fascia sinistra della retroguardia della Signora e non se ne andr&agrave; pi&ugrave; per oltre un decennio. &nbsp;  Non lascer&agrave; invece un gran segno Pierino Fanna, esuberante ala friulana che veste bianconero nel 1977. Per cinque stagioni si alterner&agrave; molto nel turnover, vincendo tre scudetti ma quasi sempre da comprimario.  Con lui dal 1979 un altro acquisto dall'Atalanta, peraltro in un ruolo simile: Domenico Marocchino. Con quest'ultimo da Bergamo arriva l'ennesimo giovane, un centrocampista di Orzinuovi che si chiama Cesare Prandelli, e il portiere Luciano Bodini, storico "secondo" di Dino Zoff.  Una sessione di mercato particolarmente intensa quella, che si chiude con l'arrivo di Roberto Tavola.  Dopodich&eacute;, tranquillit&agrave; per sette anni quando tutto sembra apparecchiato per l'ennesimo grande colpo atalantino della Juventus: Roberto Donadoni. E invece succede qualcosa che ribalta la situazione. Donadoni, "Juve? No, 'Miliardoni' va al Milan di Berlusconi" Estate 1986, la Juventus &egrave; pronta ad affondare il colpo con l'Atalanta per il pezzo pregiato del suo undici titolare. Si chiama Roberto Donadoni, &egrave; un ragazzo di quasi 23 anni che non parla molto ma si fa capire in campo. Esterno offensivo dal gran piede, giocatore completo e gi&agrave; in orbita Nazionale, profilo perfetto per la Signora, che va sicura di poter chiudere l'affare come tante altre volte in passato.  La dirigenza bianconera si rivolge quindi al presidente bergamasco Bortolotti, che per&ograve; la gela: "No, Donadoni l'ho gi&agrave; venduto al Milan". Al Milan? Ma come? E invece s&igrave;, perch&eacute; i rossoneri da pochi mesi avevano cambiato propriet&agrave; e il nuovo presidente non era pi&ugrave; Giussy Farina, capace di grandi colpi a costo di dissanguarsi, ma Silvio Berlusconi, "Sua Emittenza", re delle televisioni. Donadoni era gi&agrave; stato visionato in passato, in epoca ancora di vacche magre. Ora per&ograve; che a capo della societ&agrave; c'era uno che non si faceva molti scrupoli nello sganciare assegni robusti, l'ala di Cisano Bergamasco era tornata di moda. Per cui 4 miliardi all'Atalanta pi&ugrave; i cartellini di Incocciati e Icardi, per un totale stimato di 10 miliardi di lire. Berlusconi del resto si era convinto dell'acquisto di Donadoni dopo averlo visto giocare in una partita dell&rsquo;Under-21, il quarto di finale contro la Svezia all'Europeo del 1986. Tanti saluti quindi alla Juve, a Boniperti e all'Avvocato Gianni Agnelli, tutti spiazzati. Sui giornali Donadoni diventa subito "Miliardoni" e in effetti &egrave; un colpo sensazionale, un pugno sul tavolo delle trattative che fa capire come i tempi siano cambiati.        

Per anni tra i bergamaschi e i bianconeri c'&egrave; stata una corsia preferenziale per le trattative: Scirea, Cabrini e tanti altri hanno rinforzato la Signora, prima dell'arrivo di Berlusconi al Milan...

Atalanta-Juve, quell'asse di mercato rotto da Donadoni

        Una serata unica, una partita indimenticabile, una notte magica. Quantomeno per i tifosi milanisti. Stiamo parlando della finale di Champions League del 28 maggio 2003, che vede contrapporsi le formazioni di Milan e Juve. Si tratta della prima e, ad oggi, ancora unica volta in cui due compagini italiane si affrontano nell&rsquo;atto conclusivo della pi&ugrave; prestigiosa competizione europea. Milan all&rsquo;arrembaggio Il primo tempo &egrave; quasi tutto del Milan. Chi si aspettava una delle proverbiali partenze fulminanti della Juve ha dovuto ricredersi. Molto meglio il Milan, pi&ugrave; rapido e agile, soprattutto pi&ugrave; aggressivo. Ha chiuso la Juve nella sua met&agrave; campo facendo viaggiare il pallone e imponendo il palleggio dei suoi talenti migliori, con Rui Costa e Seedorf molto ispirati. La Juve soffre oltre il lecito sulle fasce, dove soprattutto Shevchenko, imprendibile, graffia gli juventini. Inizialmente l'ucraino sfrutta l'out destro avvelenando con le sue finte e i suoi scatti brucianti il povero Montero, chiaramente a disagio sull'esterno. Dopo un po', Sheva si sposta a sinistra con lo stesso risultato, mettendo alle corde Thuram. La scelta di Lippi di inserire Tudor e di spostare Montero nel ruolo di Birindelli si rivela sbagliata perch&egrave; la Juve perde spinta sulla fascia e soprattutto dalla parte di Montero la difesa imbarca acqua, con l'uruguaiano in affanno. Juve in affanno &nbsp;La Juve si adatta, cercando di replicare di rimessa, ma Camoranesi non si vede mai, Trezeguet &egrave; quasi sempre anticipato, solo Del Piero piazza qualche acuto. Non sono mancate le azioni da gol, anzi il Milan all'8 il gol l'ha pure segnato, a conclusione di una trama esemplare. L'avvia Rui Costa con un dribbling prolungato e un'apertura perfetta sulla sinistra per Inzaghi: cross di Pippo e Sheva, al centro dell'area stoppa e sventaglia alle spalle di Buffon. Dura un attimo l'euforia milanista perch&eacute; Merk su segnalazione del guardalinee annulla il gol, per un fuorigioco di Rui Costa, finito sullo slancio in area, proprio davanti a Buffon. Dopo due minuti la Juve risponde da par suo, con un'azione un po' casuale ma pericolosissima: su un cross da destra di Thuram, Trezeguet anticipa Maldini ma incorna fuori una palla-gol sontuosa. La partita rimane vibrante, con numerosi cambi di fronte da una parte e dall&rsquo;altra, fino al 90&rsquo; minuto, quando il triplice fischio decreta i supplementari. Il Milan perde subito Roque Junior che si &egrave; stirato, nel tentativo di andare al cross. Non avendo pi&ugrave; sostituzioni disponibili, il Milan rimane in dieci, Ambrosini si sposta sulla linea dei difensori. La Juve cerca di approfittarne, senza essere mai pericolosa. Roque Junior, come nel calcio d'altri tempi, continua a lottare, zoppicando vistosamente. Finale senza brividi, con le due squadre ormai con la testa ai rigori. Mozzafiato la sequenza, e molti errori. Shevchenko alla fine firma il 3-2 decisivo, regalando la Coppa ai suoi e permettendo a capitan Maldini di alzarla al cielo di Manchester. &nbsp; Il tabellino di Juventus-Milan 2-3 del 28 maggio 2003 JUVENTUS (4-4-2): Buffon; Thuram, Tudor (42 pt Birindelli), Ferrara, Montero; Camoranesi (1 st Conte ) Tacchinardi 6 Davids (20 st Zalayeta) Zambrotta; Trezeguet, Del Piero. A DISP.: Chimenti, Pessotto, Iuliano, Di Vaio. All. Lippi. MILAN (4-3-1-2): Dida; Costacurta (20&rsquo; st Roque Junior), Nesta, Maldini, Kaladze; Gattuso, Pirlo, (26&rsquo; st Serginho), Seedorf; Rui Costa (42&rsquo; st Ambrosini); Shevchenko, Inzaghi 5,5. A DISP.: Abbiati, Laursen, Brocchi, Rivaldo. ALL.: Ancelotti 7. ARBITRO: Merk (Germania) 6,5 Guardalinee: Muller e Schraer. Quarto uomo: Stark AMMONITI: Costacurta, Tacchinardi, Del Piero. NOTE: spettatori paganti 63.315. Angoli 13 a 4 per il Milan. Recuperi: 3&rsquo; pt, 1&rsquo; st.       

Il 28 maggio del 2003 i rossoneri superarono i bianconeri al termine di un match avvincente, nella prima finale tra italiane nella storia del prestigioso trofeo

Juve-Milan 2-3, quando Maldini alzò la Champions League al cielo di Manchester

        Ascolta il podcast e clicca il tasto segui    Nella nuova puntata del podcast de Il Cuoio raccontiamo Roma-Juventus, una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano, che affonda le sue radici negli anni Trenta del secolo scorso e si esalta negli anni Ottanta, tra le battute di Dino Viola e la caustica vivacit&agrave; di Giampiero Boniperti, fino alle dinamiche pi&ugrave; recenti, da Zeman a Mourinho. Il podcast su Roma-Juventus &egrave; con Stefano Cocci, Alessandro Ruta e Paolo Valenti. Seguilo e clicca la campanella su Spotify e su tutte le app gratuite di ascolto podcast.       

Dal 5-0 di Campo Testaccio alle polemiche tra Boniperti e Viola fino ai giorni nostri: racconto di una delle rivalit&agrave; pi&ugrave; accese del calcio italiano

PODCAST - Roma-Juve, la storia infinita

        Una vita da Oscar, quella di Giuseppe Damiani. Bresciano, classe 1950: prima ala destra di livello, poi procuratore di grande successo, tra i primi ex calciatori a intraprendere tale percorso. E che percorso: &ldquo;Ho avuto la fortuna di gestire quattro Palloni d&rsquo;Oro: Papin, Zidane, Shevchenko e Weah&rdquo;. Parlare con Oscar Damiani non &egrave; come interloquire con un semplice ex calciatore, sicuramente si tratta di un personaggio che ancor pi&ugrave; oggi, ma anche all&rsquo;epoca, verrebbe definito anticonvenzionale: &ldquo;Mentre i miei compagni magari in ritiro giocavano a carte, io andavo nei musei o nelle fiere&rdquo;. Con il primo stipendio compr&ograve; un Sironi: &ldquo;Mi cost&ograve; un milione di lire. Provengo da una famiglia semplice, nessuno mi ha trasmesso la passione per l&rsquo;arte. &Egrave; un qualcosa di personale, di intimo. Mi &egrave; sempre piaciuto, poi col tempo &egrave; diventata anche una forma d&rsquo;investimento, dato che ho acquistato tantissime opere&rdquo;. Una vita da Oscar dicevamo, iniziata come un film (comico): &ldquo;I miei genitori erano immigrati in Svizzera, l&igrave; Oscar era un nome abbastanza comune, al contrario dell&rsquo;Italia. Il prete si oppose perch&eacute; non era canonico, non apparteneva a nessun santo. Erano i ferrei anni &lsquo;50&hellip; Mi chiamarono come mio zio, Giuseppe, ma solo all&rsquo;anagrafe: per tutti sono da sempre Oscar. Poi quando &egrave; nato mio figlio ho chiamato anche lui Oscar, perch&eacute; finalmente si poteva. E adesso &egrave; un casino perch&eacute; c&rsquo;&egrave; Oscar e poi c&rsquo;&egrave; Oscar jr., mio figlio (ride, ndi.)&rdquo;. Non poteva mancare per un personaggio di tale spessore un&rsquo;autobiografia, pubblicata nel 2020 con un titolo azzeccatissimo: &lsquo;L&rsquo;arte nel pallone&rsquo;. &nbsp; "Flipper" Damiani &ldquo;Il soprannome me lo diede Gianni Invernizzi, mio allenatore quando militavo nei ragazzi dell&rsquo;Inter. Ero in pensionato e giocavo sempre al flipper; poi in campo facevo una finta in cui mi passavo continuamente il pallone da un piede all&rsquo;altro, da destra a sinistra: i miei piedi sembravano i funghetti del flipper. Da allora Invernizzi mi diede quel soprannome, anche se la leggenda vuole che a darmelo fu Gianni Brera&rdquo;. Invernizzi, uno che di soprannomi se ne intende: lo chiamavano Robiolina perch&eacute; aveva lo stesso cognome di una famiglia proprietaria di una nota ditta che produce formaggi. Flipper &egrave; veramente un epiteto che calza alla perfezione per il nostro protagonista: in campo faceva delle finte, dei dribbling e dei cambi di direzione il suo pezzo forte. Una scheggia impazzita, proprio come in un flipper, appunto. Ha vestito l&rsquo;azzurro in due diversi periodi: &ldquo;Da Vicenza sono arrivato a Napoli, poi son tornato a Vicenza e dopo un po&rsquo; di anni sono ritornato ancora a Napoli. Insomma, la squadra partenopea rappresenta molto della mia storia calcistica. Ho tanti bellissimi ricordi e uno brutto, che &egrave; il terremoto: ma Napoli mi &egrave; rimasta veramente nel cuore&rdquo;. Il sisma al quale fa riferimento &egrave; quello che scosse l&rsquo;Irpinia il 23 novembre del 1980. Un periodo difficile passato da Damiani e la sua famiglia, durante il quale, per&ograve;, i ragazzi azzurri hanno consolidato il loro legame: &ldquo;Abitavamo in una palazzina con Rudy Krol e Luciano Castellini. Noi eravamo al pianterreno, loro ai piani alti. Quando ci fu il terremoto vennero tutti a dormire gi&ugrave; da noi. Con Krol e Castellini ci lega una grande amicizia, anche le nostre mogli sono intime. Ho tanti bei ricordi di Soccavo e in quei momenti di difficolt&agrave; passati insieme si &egrave; rafforzato ancor di pi&ugrave; il gruppo&rdquo;.  Oscar Damiani e Napoli-Juve &ldquo;Negli anni &rsquo;70 partite sempre ricche di gol: ricordo anche un 6-2 (per la Juve al San Paolo, ndi.); negli anni &rsquo;80 ci fu pi&ugrave; equilibrio. Tante belle sfide, soprattutto per me che giocavo davanti&rdquo;. In quel 2-6 doppietta per Oscar Damiani: &ldquo;Una Juventus forte, ricca di grandi campioni. In un reparto offensivo in cui c&rsquo;erano Anastasi, Capello, Causio e Bettega ero forse il meno importante. Ero il pi&ugrave; giovane ma mi accettarono da subito, ero ben inserito in quella squadra. Sono stati due anni meravigliosi coronati con la vittoria dello scudetto&rdquo;. Era il pi&ugrave; giovane, ma mister Parola gli affid&ograve; comunque il ruolo di rigorista: &ldquo;Ricordo anche un titolo de &lsquo;La Notte&rsquo;: &lsquo;Damiani, il boia del dischetto&rsquo; (ride, ndi.). Ero uno specialista, ne ho tirati parecchi e ne ho anche sbagliati un paio&rdquo;. Un&rsquo;altra peculiarit&agrave; che ha contraddistinto Damiani fin da giovane, quella dell&rsquo;invidiabile stile del suo abbigliamento. Nella Juve si esibiva contro il Barone: &ldquo;La mattina arrivavamo al campo, io e Causio sfilavamo e i giocatori avevano le palette per dare i voti. Spesso e volentieri, anche per scherzare col Barone, mi davano il voto pi&ugrave; alto e Franco un po&rsquo; rosicava. Una volta ci si divertiva, si facevano giochi pi&ugrave; di societ&agrave;; oggi si &egrave; tutti un po&rsquo; pi&ugrave; seriosi con i computer e gli smartphone&rdquo;. Dopo Torino, nel 1976, Oscar si trasfer&igrave; al Genoa, dove sorprese tutti a suon di gol. Nel 1979 Ferlaino lo riport&ograve; a Napoli: serviva un grande nome per sostituire Savoldi. Un miliardo e quattrocento milioni di lire nelle casse del Grifone, Damiani di nuovo in azzurro: &ldquo;Non ho sentito la pressione. In primis perch&eacute; Napoli era un ambiente meraviglioso, poi perch&eacute; io e Savoldi occupavamo due posizioni differenti. Mi pagarono tanto, ma lui era un centravanti io un&rsquo;ala. Avevo comunque parecchie responsabilit&agrave; in pi&ugrave;&rdquo;. Nel suo secondo ciclo al San Paolo da segnalare il terzo posto della stagione 1980-81.  L'agente Oscar Dir&agrave; basta con il calcio giocato quattro anni dopo aver lasciato Napoli (esperienze con Milan, Cosmos, Parma e Lazio). Ma il suo ruolo nel mondo del pallone rester&agrave; di primordine, &egrave; stato uno dei primi ex giocatori a reinventarsi procuratore di successo: &ldquo;&Egrave; un mondo che mi ha sempre attratto. Dopo aver girato per tutta la carriera non mi andava di allenare, ero stanco di peregrinare: volevo stabilirmi in una citt&agrave; con la mia famiglia e non muovermi pi&ugrave;. &Egrave; stata la mia fortuna, mi affacciai a fine anni &rsquo;80 quando questo lavoro cominci&ograve; a prender piede. Seguivo molto il campionato francese dove c&rsquo;erano tanti giovani. Credo di essere stato migliore da agente che non da calciatore&rdquo;. Doti che mostrava anche mentre correva sulla fascia, nell&rsquo;estate del &rsquo;76 gi&agrave; ci vedeva lungo: &ldquo;Con Giussy Farina sono sempre stato molto legato, andai anche a trovarlo nella sua tenuta in Spagna. Quando passai dal Vicenza alla Juve mi chiamava per chiedermi consigli sui ragazzi della Primavera bianconera. Il primo anno gli feci il nome di Marangon, terzino sinistro che and&ograve; al Vicenza e fece molto bene. L&rsquo;anno dopo, anche se non era andato un granch&eacute; a Como, gli consigliai Paolo Rossi, che poi con Fabbri fece quello che fece. Gli dissi Pablito anche perch&eacute; facevamo le gare di corsa e mi batteva sempre: ero stanco di perdere e lo consigliai al Vicenza. Paolo correva anche pi&ugrave; di me. Era un ragazzo straordinario&rdquo;.        

Ala destra di valore, si &egrave; saputo reinventare procuratore di successo: "Migliore da agente che non da calciatore&rdquo;. Resta un personaggio anticonvenzionale nel mondo del calcio

Oscar Damiani: i ricordi del doppio ex di Napoli-Juve

        Quello di Walter Novellino all&rsquo;interno della storia del nostro calcio &egrave; stato un viaggio lungo e impervio, partito da Montemarano e arrivato fino a Castellammare di Stabia passando un po&rsquo; per tutto il nostro Stivale. Dopo il periodo della maturit&agrave; sulla sponda rossonera di Milano, vive gli anni del suo canto del cigno ad Ascoli. Nella cittadina marchigiana trascorre infatti i suoi ultimi due anni nella massima serie rendendosi protagonista di uno dei momenti pi&ugrave; alti dell&rsquo;intera storia dei Piceni. Ascoli-Juventus, di nuovo all&rsquo;undicesima giornata &Egrave; il 28 novembre del 1982 quando al Cino e Lillo Del Duca arriva la stellare Juventus di Rossi, Platini, Tardelli, Scirea e Boniek per disputare la gara valida per l&rsquo;undicesima giornata di campionato. La Vecchia Signora &egrave; in un buon momento di forma, nell&rsquo;ultimo mese ha messo in fila una serie di buone prestazione culminate con la vittoria nel derby di Torino arrivato grazie al gol del solito Le Roi. L&rsquo;Ascoli dal canto suo vive invece un momento delicato, ha accumulato pochi punti e i fasti della straordinaria stagione precedente sono ormai lontani. I sostenitori del Picchio per&ograve; sanno bene che i miracoli non sono impossibili: poco meno di un anno prima infatti &egrave; arrivata una grande vittoria in casa proprio contro i bianconeri, propiziata dalla rete di Enrico Nicolini. Per un curioso caso del destino, mai banale quando si tratta di questo tipo di coincidenze, anche quell&rsquo;Ascoli-Juventus si giocava proprio all&rsquo;undicesima giornata.  Doppietta di Novellino nel primo tempo: Juve ko Che la Vecchia Signora non sia in giornata appare chiaro da subito a tutti: Mazzone sembra aver imbrigliato la manovra juventina in una ragnatela di pressing alto che blocca allo stesso tempo Platini, Rossi e Boniek, oltre che Tardelli. Il climax ascendente tutto ascolano trova il suo apice al venticinquesimo minuto quando, dopo una carambola al centro dell&rsquo;area, Novellino si impadronisce del pallone tra due avversari mettendolo gi&ugrave; col petto per poi calciare con il mancino. Non &egrave; un tiro irresistibile, ma la selva di gambe che numerose affollano l&rsquo;area di rigore manda in confusione Zoff, e la palla termina in rete. Il forcing dei padroni di casa continua e a pochissimo dallo scadere della prima frazione il Picchio mette in ghiaccio la partita con il solito, ispiratissimo Novellino. Il numero 7 piceno, sugli sviluppi di una punizione dal limite, si ritrova il pallone sul destro e con un tocco magico a met&agrave; tra il pallonetto e il tiro a giro sul secondo palo beffa Zoff per la seconda volta.  Scirea non sta bene, e si vede: al rientro dalla pausa al suo posto infatti scende in campo Bonini. Il secondo tempo non offre troppe emozioni: prima Monelli si divora il gol del tre a zero, poi Le Roi firma l&rsquo;unico acuto di una giornata no, colpendo il palo su punizione. La partita termina sul due a zero per i padroni di casa: ad Ascoli, ancora una volta, Davide ha sconfitto Golia.  Ascoli-Juve 2-0 del 28 novembre 1982: il tabellino ASCOLI: Brini, Anzivino, Boldini, Menichini, Gasparini, Nicolini, Novellino, De Vecchi, Pircher (44&rsquo;st Muraro), Greco (31&rsquo;st Carotti), Monelli. A DISP.: L. Muraro, Scorsa, Iachini. ALL.: Mazzone JUVENTUS: Zoff, Gentile, Prandelli, Furino, Brio, Scirea (1&rsquo;st Bonini), Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. A DISP: Bodini, Storgato, Galderisi, Marocchino. ALL.: Trapattoni. MARCATORI: 25&rsquo; e 45&rsquo; Novellino. ARBITRO: Benedetti di Roma.        

Il 28 novembre di quarant&rsquo;anni fa al Cino e Lillo Del Duca i Piceni allenati da Carlo Mazzone superarono lo squadrone di Trapattoni

Ascoli-Juve 1982, la doppietta di Novellino che stese la Signora

        Se mettessimo insieme il numero dei chilometri percorsi da entrambi sulle rispettive fasce di competenza, probabilmente avremmo centuplicata la distanza tra la Mole Antonelliana e il Colosseo. &Egrave; un modo pure questo per avviare il racconto di quelle che sono state le carriere di Antonio Cabrini e Sebastiano Nela con indosso le maglie di Juventus e Roma, in un&rsquo;epoca in cui la societ&agrave; giallorossa era riuscita a scalare posizioni per assestarsi non episodicamente all&rsquo;interno dell&rsquo;&eacute;lite che componeva il gotha del calcio italiano e che, di conseguenza, aveva smesso di essere simpatica a tutti, per dirla con le parole del presidente Dino Viola. Parlando di quelle sfide spalmate nel corso del decennio scoccato nel 1980, potremmo dire che in alcuni casi guardare solo al centro del palcoscenico ci fa perdere tutto quello che accade ai lati, a volte pi&ugrave; appassionante ancora. Questa &egrave; una di quelle volte, perch&eacute; in una miriade di sfide tra Juventus e Roma avere in campo Cabrini e Nela equivaleva a garantirsi che il terreno di gioco non si inclinasse da una parte o dall&rsquo;altra, visto il numero sempre elevato di percussioni da parte di entrambi.  Dualismo In quelle stagioni si tendeva sempre a sintetizzare la rivalit&agrave; attraverso il dualismo Platini-Falcao, nella maggior parte dei casi; in alcune occasioni opponendo le parate di Dino Zoff (e di Stefano Tacconi dopo di lui) a quelle di Franco Tancredi; in altre giocando con le figurine degli uomini gol: Paolo Rossi (o Ian Rush e Aldo Serena) opposto a Roberto Pruzzo. Raramente si pensava al confronto tra loro, e dire che se lo sono spesso giocato da autentici dirimpettai, soprattutto nelle stagioni in cui Nela (capace di disimpegnarsi su entrambe le fasce e in seguito anche da centrale, visto il fisico poderoso e la propensione non solo all&rsquo;azione di spinta ma anche all&rsquo;anticipo in chiave difensiva) veniva adattato a destra da Nils Liedholm, visto che a sinistra agiva Aldo Maldera, trovandosi a controbilanciare la spinta di Cabrini sulla fascia sinistra. Ed erano confronti in cui l&rsquo;equilibrio era dato dalla sfida tra due che avevano entrambi la caratteristica di saper trattare il pallone senza che l&rsquo;aumento dei giri della corsa compromettesse la soglia del controllo, anzi: la sfera arrivava coi giri contati a destinazione sia quando anticipavano il servizio mettendo palla in mezzo dalla linea della trequarti, sia quando dimostravano di conoscere a memoria il manuale del bravo fluidificante (il terzino addetto alla spinta, che oggi sarebbe un laterale a tutta fascia, o quasi) e arcuavano i loro cross leggermente a rientrare dopo aver quasi sfiorato con i tacchetti le colonne d&rsquo;ercole della linea di fondo. Una manna per i fotografi appostati accanto ai pannelli pubblicitari, tra l&rsquo;altro, che catturavano scatti su scatti, in tutti i sensi, le loro chiome striate dalla corsa.  Bell'Antonio Sbocciato al calcio nelle giovanili della Cremonese, quindi nella sua citt&agrave; natale, Antonio Cabrini da ragazzino era un&rsquo;ala promettente, con un sinistro naturale e un piede &ldquo;debole&rdquo;, il destro, pi&ugrave; che decente. Il talent scout Ivanoe Nolli cap&igrave; per primo che sarebbe diventato un terzino fenomenale, aggettivo al quale possiamo aggiungere futuribile, per l&rsquo;interpretazione moderna del ruolo. Nel 1975-76 un campionato di B con l&rsquo;Atalanta, quindi la chiamata alla Juventus, sotto la guida tecnica di Giovanni Trapattoni: 440 presenze complessive e 52 reti, vincendo tutto ci&ograve; che c&rsquo;era da vincere, con la Coppa del Mondo del 1982 in aggiunta, con la maglia azzurra.  Hulk Nato a Rapallo, uomo alieno a ogni compromesso, nel cui sangue si mescolano la solennit&agrave; dei sardi e la diffidenza dei liguri, Sebino Nela dopo essere stato svezzato dal Genoa approda alla Roma nel 1981 e assieme a lei diventa grande, fino al 1992, vincendo uno scudetto e tre Coppe Italia, raggiungendo una finale di Coppa dei Campioni e una finale di Coppa Uefa. 397 le presenze, bagnate da 19 reti. Un mancino naturale anche lui, che proprio per questo ha saputo rintuzzare pi&ugrave; di un tiro mancino da parte della vita. Le briciole della madeleine che ci ha fatto sentire il profumo della memoria degli Juventus-Roma che furono, stavolta le abbiamo raccolte lungo la fascia laterale.  Amati anche fuori dal campo Due che piacevano alle donne, anche se non dovremmo usare l&rsquo;imperfetto e nessun tipo di passati, perch&eacute; Cabrini e Nela ancora oggi che hanno superato i sessanta sono tra quelli che non hanno bisogno di fare i &ldquo;piacioni&rdquo; per risultare graditi al gentil sesso. Bello in modo pi&ugrave; convenzionale e decisamente sopra la soglia media dei calciatori dell&rsquo;epoca era Antonio Cabrini, tanto che il soprannome &ldquo;Bell&rsquo;Antonio&rdquo;, con annessa citazione letteraria dal romanzo di Vitaliano Brancati, gli era piovuto sulle spalle perch&eacute; cos&igrave; lo aveva definito Gianni Brera. Primo giocatore a essere protagonista di uno spot televisivo, tra l&rsquo;altro, per la Robe di Kappa. Preistoria, decisamente. Tratti da indio, profilo tenebroso e chioma un poco ribelle per Sebino Nela, il cui appeal era dovuto anche a una muscolatura possente, che risaltava rispetto alla media dei suoi colleghi dell&rsquo;epoca, i cui fisici erano pi&ugrave; che altro ben definiti da una generica preparazione ginnica che si sommava agli allenamenti specifici. Anche in questo caso sembra che si parli di un millennio fa, soprattutto se citiamo il soprannome &ldquo;Hulk&rdquo; dovuto proprio al suo arsenale che cominciava dai polpacci e dai quadricipiti. Pi&ugrave; forte di Hulk Nela &egrave; stato nell&rsquo;affrontare il cancro, qualche anno fa, ma questa &egrave; un&rsquo;altra storia, che lui ha gi&agrave; raccontato in un libro.       

Terzini a tutta fascia, Antonio e Sebino sono stati protagonisti negli Anni Ottanta di stagioni indimenticabili con bianconeri e giallorossi

Juve-Roma, con Cabrini e Nela che sfide di corsa

        &ldquo;La Juventus &egrave; stata la nostra avversaria in quegli anni. Ci ha tolto uno scudetto nel 1973, ha combattuto contro di noi nel 1974 e poi &egrave; sempre stata la squadra da battere. Aveva giocatori eccezionali, in tutte le zone del campo. Soprattutto quelli che mi marcavano". Renzo Garlaschelli ha scritto pagine indimenticabili della storia della Lazio. &Egrave; stata l&rsquo;ala destra in grado di regalare gol, assist ed equilibrio alla &ldquo;Banda Maestrelli&rdquo;, diventando un partner offensivo perfetto per Giorgio Chinaglia. Ha partecipato alla crescita della squadra, che nel giro di pochi anni &egrave; passata dalla Serie B alla vittoria dello scudetto. Renzo Garlaschelli componeva con Chinaglia e D&rsquo;Amico il reparto offensivo negli anni in cui i biancocelesti combattevano contro la Juventus per la conquista del titolo. E ha disputato dieci stagioni nella Capitale, diventando un beniamino della tifoseria. &ldquo;Ancora oggi la gente mi vuole bene. I tifosi della Lazio non fanno altro che ricordare quello che abbiamo raggiunto in quegli anni. E non pu&ograve; che essere cos&igrave;. Abbiamo vinto lo scudetto, ci siamo divertiti e abbiamo fatto divertire tutti, giocando un calcio, per certi versi, moderno". Che posizione ricopriva in campo Renzo Garlaschelli?  &ldquo;In quegli anni chi giocava sulla fascia destra era giudicato o un tornante o una seconda punta. Io appartenevo pi&ugrave; a questa categoria. Ero certamente pi&ugrave; offensivo e mi risparmiavo un po&rsquo; di chilometri a partita&rdquo;. Nella Juventus invece c&rsquo;era Franco Causio.? &ldquo;Non facciamo paragoni per favore. Lo dico senza falsa umilt&agrave;. Lui era un tornante puro, ma soprattutto era un campione eccezionale. Uno che segnava, faceva segnare e che ha giocato con continuit&agrave; in Nazionale. Ha fatto la storia del calcio italiano e della Juventus&rdquo;. Come Renzo Garlaschelli ha fatto la storia della Lazio.  &ldquo;Fa piacere ogni tanto sentirselo dire. Con la Lazio ho vinto uno scudetto, ho giocato tanti anni e mi sono tolto grandi soddisfazioni. Sono rimasto laziale perch&eacute; mi ha regalato delle emozioni incredibili. La Lazio ti entra nel cuore, c&rsquo;&egrave; poco da fare&rdquo;. Che sfide erano quelle con la Juventus in quegli anni?  &ldquo;Sfide difficili. A Roma siamo riusciti spesso a batterli, giocando bene. A Torino era quasi impossibile. Ci hanno sempre fatto male&rdquo;. Perch&egrave; imporsi a Torino era cos&igrave; complicato?? &ldquo;La Juventus era una squadra oggettivamente superiore, costruita sempre per vincere. Noi in quei tre, quattro anni abbiamo provato a metterli in difficolt&agrave; con le nostre forze e devo dire che ci siamo riusciti. Ma andare a Torino e vincere non era semplice, per tanti motivi. Non mi fare aggiungere altro&rdquo;. I bianconeri erano i vostri avversari pi&ugrave; forti?  "La Lazio si &egrave; giocata poche volte lo scudetto e quando lo ha fatto, la Juventus c&rsquo;era sempre. Ti dico la verit&agrave;: il primo anno, la stagione 1972-73, il Milan era la formazione pi&ugrave; forte e pi&ugrave; accreditata, ma si suicid&ograve; perdendo a Verona. Poi nel 1973-74 noi abbiamo vinto contro i bianconeri e successivamente la Juve si &egrave; presa la rivincita. Chi voleva vincere il titolo doveva sempre avere a che fare con la Juve&rdquo;. Chi erano i suoi marcatori diretti?  &ldquo;Come cascavi, cascavi male: Spinosi, Gentile, Cabrini. Difensori fortissimi, gente di personalit&agrave;. Giocarci contro non era facile. E poi c&rsquo;era Tardelli, Furino e in attacco dei campioni incredibili. Ripeto, erano forti, poi l&rsquo;ambiente caldo: insomma a Torino era quasi impossibile uscire senza ossa rotte&rdquo;. All&rsquo;Olimpico invece?  &ldquo;Tutto diverso. Il 3-1 nell&rsquo;anno dello scudetto resta per me indimenticabile. Un insieme di emozioni incredibili. Ma non fu la nostra unica, grande partita, giocata contro i bianconeri. Per me resta unico il 3-0, in cui segnai un gran gol. Che purtroppo non ricorda nessuno&rdquo;. Per quale motivo?  &ldquo;Perch&eacute; Bruno Giordano ebbe la bella idea di segnare due reti meravigliose: una con un tiro al volo eccezionale, un&rsquo;altra con un doppio pallonetto a Zoff e Morini. Per tutti quel Lazio-Juve resta la partita della doppietta di Bruno Giordano. Ma &egrave; giusto cos&igrave;. Io per&ograve; mi tengo la soddisfazione di aver partecipato a quella festa, segnando un gran gol&rdquo;. Giordano, prima ancora Chinaglia, molti suoi compagni erano entrati nelle mire della Juventus.  &ldquo;Ti fermo subito. A me non mi hanno mai cercato (ride, ndi). Che ci facevano con Garlaschelli? Avevano Causio e tutta una lunga serie di campioni? Qualcuno in quegli anni buss&ograve; alla mia porta, ma la Juve mai&rdquo;. Chi sentiva di pi&ugrave; le sfide con la Juve?  &ldquo;Maestrelli le preparava molto bene. Ma &egrave; chiaro che c&rsquo;erano grandi attese. Giocare con la Juve per noi era un bel banco di prova. I bianconeri e il derby rappresentavo le sfide che tutti aspettavano. Io riuscivo a essere pi&ugrave; sereno rispetto agli altri, ma in campo poi mi scatenavo&rdquo;.       

"A Torino era quasi impossibile vincere contro i bianconeri, ma a Roma spesso ci siamo riusciti. Che emozione il 3-0 del &rsquo;77, segnai ma tutti hanno in mente solo la doppietta di Giordano"

Lazio, Garlaschelli: "La Juve, lo scudetto e quel gol che nessuno ricorda"

        Anche l&rsquo;edizione della Coppa Italia 1964-65 ha visto nel suo atto finale sfidarsi Juve e Inter. Non &egrave; la prima volta che un Derby d&rsquo;Italia assegna la coppa nazionale: qualche anno prima infatti, nel 1959, Inter e Juve si incontrarono e a sfangarla furono sempre i bianconeri.&nbsp;&Egrave; il 29 agosto del 1965. L&rsquo;Italia sportiva a dire il vero &egrave; concentrata su un altro evento: la disastrosa caduta a Robbiano dei nostri migliori ciclisti, nella penultima gara di preparazione per i mondiali. Gimondi, Taccone e Adorni ne escono infortunati, gettando nello sconforto milioni di appassionati in un tempo in cui il ciclismo era il primo, autentico sport nazionale, in grado di oscurare anche gli accadimenti calcistici.  Heriberto contro Helenio La partita viene giocata a Roma, in uno Stadio Olimpico dove accorrono circa 50.000 spettatori, per lo pi&ugrave; tifosi del sud Italia, nonostante qualche polemica dell&rsquo;ultima ora da parte dei due club, che avrebbero senza dubbio preferito una location pi&ugrave; vicina. La sfida sulle panchine vede confrontarsi i due omonimi Herrera che non potrebbero venire da momenti pi&ugrave; diversi. Helenio, tecnico dell&rsquo;Inter, nell&rsquo;ultima stagione ha trionfato in tutte le competizioni che ha disputato: campionato, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale; la Coppa Italia sarebbe la ciliegina sulla torta che anticiperebbe quel record arrivato solamente nel 2010. Heriberto dall&rsquo;altra parte, tecnico che godeva di una certa antipatia da parte dell&rsquo;ambiente e della stampa, sino a quel momento poteva fregiarsi di ben pochi meriti, anzi. &Egrave; proprio l&rsquo;inflessibile e rigido allenatore paraguaiano che rompe con l&rsquo;istrionico Sivori, allontanando il Cabez&oacute;n dalla Juventus e facendolo accasare a Napoli, lasciando interdetti tutti i tifosi juventini. La vittoria della Coppa servirebbe a entrambi, a Heriberto per far ricredere chi lo considera un visionario, e a Helenio per far tacere tutte quelle polemiche nate dopo la disastrosa amichevole di Barcellona della settimana precedente, dove l&rsquo;Inter &egrave; uscita sconfitta in malo modo.  La vittoria di Menichelli, romano e bianconero La Grande Inter, forse appagata dalle numerose vittorie, scende in campo senza il piglio delle grandi occasioni, lasciando ai bianconeri il pallino del gioco, soprattutto a centrocampo. La Juventus dal canto suo, orfana di Sivori, fa del gioco corale il suo punto di forza, non fa spiccare nessuna individualit&agrave; e i suoi attaccanti, lenti e lontani dalla manovra, ne sono l&rsquo;esempio pi&ugrave; lampante. Il vantaggio degli uomini di Heriberto viene infatti dal centrocampo: Del Sol imbuca Menichelli ma la palla &egrave; lunga e finisce tranquillamente tra le braccia di Sarti che, sfortunatamente, urta Bedin e perde la sfera. &Egrave; proprio l&rsquo;ala bianconera a gettarsi per prima sul pallone e a insaccarlo in rete, tutto questo al 15esimo minuto del primo tempo. Menichelli segna dunque nel suo vecchio stadio, lui romano, che all&rsquo;Olimpico ha tirato i primi calci al pallone da professionista alla fine degli anni &rsquo;50. L&rsquo;Inter, sfilacciata e mai davvero in partita, non riesce a impensierire i bianconeri, forti di una difesa rocciosa formata da Castano, Bercellino e Salvadore. L&rsquo;uomo pi&ugrave; ispirato della formazione juventina &egrave; senza dubbio Del Sol, che ben coadiuvato da Cinesinho rappresenta una vera e propria spina nel fianco della difesa nerazzurra. Perlomeno fin quando al 30&rsquo; della ripresa non pensa bene di dar vita a un vero e proprio duello rusticano con Burgnich: i due vengono alle mani, vola qualche cazzotto e finiscono sotto la doccia prima del tempo. L&rsquo;ultimo quarto d&rsquo;ora vede un&rsquo;Inter pi&ugrave; aggressiva, ringalluzzita dall&rsquo;espulsione dello spagnolo, che si fa vedere con pericolosit&agrave; dalle parti di Anzolin. Alla fine l&rsquo;estremo difensore bianconero verr&agrave; salvato dal palo, che lo assiste su una conclusione di Jair che sembrava destinata a finire in rete. La partita termina cos&igrave; sull&rsquo;1-0. Il trofeo, il quinto della storia bianconera, finisce tra le grinfie di Heriberto Herrera, che si prende la sua prima, piccola rivincita su tutti i diffidenti oltre che sui suoi detrattori.        

La squadra del Mago venne sconfitta dai bianconeri grazie a un gol di Giampaolo Menichelli in uno Stadio Olimpico gremito

Juve-Inter, nel 1965 la Coppa Italia la vinse Heriberto Herrera

        Il campionato 1971-72 si sta avviando verso la conclusione. Il 23 aprile al Comunale di Torino va in scena uno dei Derby d&rsquo;Italia pi&ugrave; importanti degli ultimi anni. La Juventus non sta vivendo un momento felicissimo: solo poche settimane prima ha perso in rimonta la stracittadina contro il Toro di Giagnoni, e si ritrova a dover riconquistare il terreno perso nelle ultime uscite. Sono proprio i granata, oltre al Milan e al Cagliari, a lottare per la vetta del campionato insieme ai bianconeri, regalando a tifosi e appassionati uno dei finali di stagione pi&ugrave; avvincenti della storia della Serie A.  Troppa Juve per l&rsquo;Inter L&rsquo;importanza della partita &egrave; evidente: la Juventus pu&ograve; approfittare dello scontro diretto di San Siro tra Milan e Torino, e cos&igrave; fa. L&rsquo;Inter da parte sua arriva fresca neo finalista di Coppa dei Campioni, traguardo che &egrave; costato per&ograve; a Mazzola e compagni un grande dispendio di energie nei 120 minuti di Glasgow. La pesantezza delle gambe degli interisti si va a scontrare con tutta l&rsquo;energia e la freschezza dei bianconeri. In campo non c&rsquo;&egrave; davvero quasi mai partita: Marchetti, Spinosi, Cuccureddu e Capello si mangiano letteralmente gli avversari, non dando tregua a Bedin, Jair e Bertini, permettendo a Haller di spaziare sulla trequarti. Unica nota positiva in casa Inter &egrave; l&rsquo;ottima prova del giovane Oriali, che pu&ograve; fare per&ograve; ben poco. I bianconeri possono contare come sempre sulla prestazione maiuscola di Furino, che fa venire il mal di testa a Corso in entrambe le fasi di gioco. Nonostante la prova di forza di quasi tutta la formazione della Juventus, l&rsquo;attenzione e la gloria vengono inevitabilmente calamitate da Franco Causio. Il Barone ruba la scena a tutti gi&agrave; all&rsquo;ottavo minuto, quando insacca di testa un ottimo cross di Haller e fa esplodere il Comunale. Pochi minuti dopo arriva l&rsquo;unico squillo interista della gara con Mazzola che da trenta metri lascia partire un gran destro che scheggia la traversa. I nerazzurri di l&igrave; a poco soccomberanno allo stupendo raddoppio di Causio: &egrave; ancora il tedesco Haller a servire il Barone che questa volta infila Vieri con un perfetto destro al volo. Il secondo tempo vede qualche guizzo da una parte e dall&rsquo;altra, prima del terzo gol di Causio, forse il pi&ugrave; bello della partita: il Barone si avventa su un pallone a mezz&rsquo;aria al limite dell&rsquo;area, lo sposta sul destro e lascia partire un diagonale perfetto che fa 3-0. L&rsquo;ala destra bianconera firma cos&igrave; la tripletta personale, regalando a Vycpalek e alla Juventus la vetta della classifica, vetta che manterr&agrave; fino al termine del campionato, scucendo dalle maglie nerazzurre lo scudetto che l'Inter aveva vinto l'anno prima. Niente pallone per Causio Al termine del match Causio si rende protagonista di un altro bellissimo gesto, che questa volta non ha niente a che fare con il rettangolo verde. Haller lo avvicina nel tunnel, gli spiega che un suo giovanissimo fan, che ha perso la madre pochi giorni prima, vorrebbe il pallone della tripletta. Il Barone dall&rsquo;alto del suo cuore d&rsquo;oro non ci pensa due volte, si priva del prezioso trofeo personale, regalando un ricordo e un cimelio davvero impagabile al giovane tifoso.  Juve-Inter 3-0 del 23 aprile 1972: il tabellino JUVENTUS: Piloni, Spinosi, Marchetti, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Cuccureddu (28&rsquo; st Savoldi), Anastasi, Capello, Haller. A DISP.: Carmigiani. ALL.: Vycpalek. INTER: Vieri, Oriali, Facchetti, Bedin, Giubertoni, Burgnich, Jair (21&rsquo; st Fabbian), Bertini, Pellizzaro, Mazzola, Corso. A DISP.: Bordon. ALL.: Invernizzi. ARBITRO: Pieroni (Roma). MARCATORE: 8&rsquo;, 27&rsquo; e 40&rsquo; st Causio. &nbsp;       

Il Barone fu il vero mattatore di uno dei Derby d&rsquo;Italia pi&ugrave; importanti di sempre, che spian&ograve; la strada ai bianconeri verso il quattordicesimo scudetto della loro storia

23 aprile 1972: Juve-Inter e quella tripletta di Causio

        Il 6 aprile 1997 il calendario della Serie A propone una super classica: nel posticipo di San Siro &egrave; in programma Milan-Juventus. I padroni di casa, in seguito a un avvio di stagione pieno di difficolt&agrave; &ndash; che ha determinato il ritorno di Arrigo Sacchi, subentrato in panchina a Tabarez esonerato dopo la rovesciata di Luiso &ndash; sembrano in ripresa, provenienti da due convincenti vittorie arrivate senza concedere gol contro Fiorentina e Atalanta. Dall&rsquo;altra parte la Juve di Marcello Lippi, una corazzata che non perde da 10 partite e domina in campionato e in Europa. Anche se nel pomeriggio il Parma &ndash; diretta inseguitrice della Signora in classifica &ndash; si &egrave; portato a -3, battendo 3-0 la Sampdoria. I Ducali si trovano costretti a fare il tifo per gli uomini di Sacchi, che con un risultato positivo potrebbero riaprire il discorso scudetto.&nbsp; Juve pi&ugrave; cinica, doppio vantaggio all&rsquo;intervallo&nbsp; La Juve si presenta a Milano senza Montero, Torricelli, Deschamps, Conte, Del Piero e Padovano. Ma anche l&rsquo;infermeria del Milan &egrave; piena: out Costacurta, Albertini, Weah, Davids e Ambrosini, con Coco ed Eranio in panchina, ma a mezzo servizio. Panchina anche per Baggio, al quale Sacchi preferisce il tandem Simone-Dugarry. Le due squadre si studiano per un quarto d&rsquo;ora, poi, al 19&rsquo;, &egrave; Sebastiano Rossi il primo a sporcarsi i guanti: la sua respinta sul potente destro di Vieri finisce sui piedi di Jugovic, che sblocca il risultato. Un Milan che lascia troppi spazi tra i reparti, nei quali s&rsquo;infilano come il burro i centrocampisti bianconeri &ndash; Jugovic, Tacchinardi e Zidane, autori di una prova superba &ndash;, riesce comunque ad impensierire l&rsquo;attento Peruzzi. Prima con un colpo di testa Dugarry ben parato in angolo, poi con una deviazione in area di Simone bloccata con sicurezza da &ldquo;Tyson&rdquo; e infine con la punizione di Boban, terminata di poco alta. Al 32&rsquo;, per&ograve;, la Juve colpisce ancora. Jugovic calcia dalla distanza, la sfera deviata arriva sui piedi di Boksic che si ritrova a tu per tu con Rossi e viene steso dal goffo intervento di Maldini: rigore. Il portiere rossonero tocca soltanto il penalty di Zidane, che firma cos&igrave; il raddoppio ospite. Rossi si dispera per la mancata parata, ma non pu&ograve; ancora sapere cosa lo aspetta nel secondo tempo.  Ancora Jugovic, doppio Vieri e Amoruso: game, set, match Juve! Da segnalare nel finale della prima frazione anche l&rsquo;infortunio muscolare a Boksic, che lascia il campo a Nick Amoruso, e una clamorosa occasione non concretizzata da Savicevic. &Egrave; proprio il giovane attaccante ex Padova a dare il via all&rsquo;azione del 3-0. &ldquo;Nick Dinamite&rdquo; deve solo difendere il pallone e allargare sulla sinistra, al resto ci pensa ancora Jugovic, che dalla fascia in cui sta semplicemente demolendo l&rsquo;avversario Reiziger, si accentra e batte uno stizzito Rossi sul primo palo. A questo punto Sacchi butta nella mischia Baggio. L&rsquo;entrata in campo del fuoriclasse di Caldogno viene accolta da un mix di applausi &ndash; tutti in suo favore &ndash; e fischi, all&rsquo;indirizzo del Vate di Fusignano, che forse avrebbe dovuto inserirlo prima. Ma quando anche il colpo di testa del Divin Codino s&rsquo;infrange sui guantoni di uno straordinario Peruzzi, si ha la definitiva percezione che per il Milan non sia proprio serata. La difesa rossonera, guidata dalla stagionata coppia centrale Vierchowod-Baresi (74 anni in due), &egrave; ormai in balia di un avversario che la fa crollare per la quarta volta al 71&rsquo;. Segna il suo primo gol al Meazza Bobo Vieri, sfruttando il pregevole assist di Tacchinardi, reso possibile dal disastroso posizionamento della retroguardia rossonera. San Siro non crede a quello che sta accadendo, ma non &egrave; finita, perch&eacute; due minuti pi&ugrave; tardi si aggiunge alla festa bianconera anche Amoruso, raccogliendo la corta respinta di Rossi sul bolide dell&rsquo;inesauribile Jugovic e firmando il pokerissimo. Il bellissimo gol immediato del Milan, di Simone, arrivato con un potente tiro al volo, serve solo a evitare il cappotto, vista l&rsquo;ultima segnatura di serata che porta ancora la firma di Vieri all&rsquo;81&rsquo;. Per Bobo doppietta a San Siro al Milan a coronare un periodo fantastico, visto l&rsquo;esordio con la Nazionale maggiore arrivato (con tanto di gol) contro la Moldavia solo una settimana prima. Ciclone Juve! Milan da rifondare, ma c&rsquo;&egrave; un precedente&hellip; Finisce con un inimmaginabile 1-6, stessa goleada che la Juventus aveva inflitto il 15 gennaio al Psg nella finale d&rsquo;andata della Supercoppa europea. Un compiaciuto Lippi a fine gara ci scherza, rendendo pubblica una battuta di Chiusano: &ldquo;L&rsquo;avvocato Chiusano mi ha ricordato che una volta a Torino il Milan vinse per 7 a 1, ma la Juve conquist&ograve; egualmente lo scudetto. Era il campionato 1949-50&rdquo;. Effettivamente un precedente c&rsquo;&egrave; e venne giocato in un'occasione storica: quella del 5 febbraio 1950 fu la prima partita trasmessa in Italia in diretta televisiva. Tornando all'attualit&agrave;, l&rsquo;umiliante sconfitta milanista manifesta il solco creatosi ormai tra le due squadre, rendendo lampante il fatto che in casa Milan sia tutto da rifondare. &Egrave; il tempo del dominio della Juve di Lippi, almeno in campionato, perch&eacute; in Europa ai bianconeri mancher&agrave; un pizzico di fortuna per tornare nell&rsquo;olimpo e ripetere i fasti proprio del grande Milan di Sacchi e Capello. Milan-Juventus 1-6 del 6 aprile 1997, il tabellino: MILAN (4-4-2): Rossi S.; Reiziger, Vierchowod, Baresi, Maldini; Savicevic, Desailly (37&rsquo; st Tassotti), Boban, Blomqvist (14&rsquo; st Baggio R.); Dugarry, Simone. A DISP.: Pagotto, Vukotic, Coco, Eranio. ALL.:&nbsp;Sacchi. JUVENTUS (4-4-2): Peruzzi; Porrini (28&rsquo; st Pessotto G.), Ferrara, Iuliano, Dimas; Di Livio, Tacchinardi, Zidane (30&rsquo; st Lombardo), Jugovic; Boskic (39&rsquo; pt Amoruso N.), Vieri C. A DISP.: Rampulla, Nicoletto, Trotta I., Vieri M. ALL.: Lippi. ARBITRO: Braschi (Prato). &nbsp;MARCATORI: 19&rsquo; pt e 6&rsquo; st &nbsp;Jugovic, 32&rsquo; pt rig. Zidane, 26&rsquo; st e 36&rsquo; st Vieri C., 28&rsquo; st Amoruso N. (J); 31&rsquo; st Simone (M).? &nbsp;       

La notte pi&ugrave; buia dei gloriosi anni &rsquo;90 rossoneri. Una Signora senza piet&agrave; trascinata da Jugovic e da un giovane Bobo Vieri, travolge il Diavolo a San Siro e vola verso lo scudetto

6 aprile 1997, Milan-Juve 1-6: il ciclone bianconero si abbatte su Sacchi

        &Egrave; da poco iniziato il 1972, il mondo e l&rsquo;Italia in particolare stanno vivendo uno dei decenni pi&ugrave; importanti della storia contemporanea. L&rsquo;opinione pubblica nel nostro Paese, ancora impaurita per il terremoto di Ancona, &egrave; impegnata a seguire il processo per la strage di piazza Fontana, mentre Enrico Berlinguer &egrave; diventato da poco segretario del PCI. Nel frattempo, la Serie A sta entrando nel vivo, regalando a tutti gli appassionati di calcio nostrani una delle stagioni pi&ugrave; avvincenti di sempre. La rincorsa sulla Juventus Nel girone d&rsquo;andata la Juventus ha staccato tutti, anche se non di molto, e si ritrova in prima posizione con il Milan alle calcagna. Deve fare per&ograve; i conti con la defezione di Bettega, fermo per curare un principio di tubercolosi che rischia di rovinargli la carriera. In sordina intanto il Torino, che in estate ha prelevato dal Mantova il tecnico Giagnoni e l&rsquo;ala Toschi, tallona le prime a pochi punti di distanza, risultando la vera rivelazione del campionato. I granata, trascinati tra gli altri da Claudio Sala e Pulici, si apprestano a giocare uno dei derby pi&ugrave; importanti degli ultimi anni. Il trionfo del Toro nel derby &Egrave; il 26 marzo del 1972. Il Comunale di Torino &egrave; vestito a festa, e si staglia contro il grigio del plumbeo cielo del capoluogo piemontese. La resurrezione calcistica di quella citt&agrave; a cui sono legati molti tra i pi&ugrave; gloriosi ricordi del nostro sport nazionale viene celebrata con una battaglia dall&rsquo;altissima drammaticit&agrave;. Due squadre ricolme di orgoglio si affrontano senza timore: il ritmo &egrave; incalzante, gli scontri cruenti e durissimi, il tasso tecnico molto elevato nonostante la foga degli interpreti ed il manto erboso non in condizioni eccezionali. L&rsquo;iniziale supremazia bianconera si tramuta in gol al 20&rsquo;, quando al termine di un&rsquo;azione stupenda Anastasi segna con un gran mancino al volo su lancio lungo di Capello, provando a spegnere i sogni di gloria granata. La risposta del Toro &egrave; rabbiosa ed immediata. Nemmeno 10 minuti dopo il vantaggio juventino Spinosi atterra Pulici al limite dell&rsquo;area: sul pallone si presenta Claudio Sala che con una parabola perfetta infila la sfera sotto l&rsquo;incrocio dei pali. Le due squadre tornano negli spogliatoi sul risultato di parit&agrave;, ma ad inizio ripresa i granata devono fare i conti con una brutta tegola: Pulici si scontra con Spinosi e si procura una distorsione al ginocchio. Ciononostante gli uomini di Giagnoni non si perdono d&rsquo;animo e spinti dal pubblico torinista assediano la porta bianconera ribaltando il risultato al minuto 65: Fossati impegna Carmignani con un colpo di testa, sulla ribattuta Agroppi &egrave; il pi&ugrave; rapido a gettarsi sul pallone e lo butta dentro. Il Comunale esplode, il derby va al Toro. Quel travolgente finale di campionato vedr&agrave; poi il Torino agganciare i bianconeri il 9 aprile, e addirittura superarli nel turno successivo. Alla ventisettesima per&ograve;, in casa del Milan, i granata vengono sconfitti e dicono addio al sogno scudetto, mentre a Torino Causio stende l&rsquo;Inter campione in carica con una tripletta.&nbsp; Torino-Juve 2-1 del 26 marzo 1972: il tabellino TORINO: Castellini, Lombardo, Fossati, Zecchini, Cereser, Agroppi, Rampanti, Crivelli, Pulici (3&rsquo; st Toschi), C. Sala, Bui. All.: Giagnoni.&nbsp; JUVENTUS: Carmignani, Spinosi, Marchetti, Furino, Morini, Salvadore, Causio, Savoldi, Anastasi, Capello, Novellini (15&rsquo;st Viola). All.: Vycpalek. MARCATORI: Anastasi 20&rsquo;, C. Sala 30&rsquo;, Agroppi 20&rsquo;st. ARBITRO: Angonese (Mestre).&nbsp;        

Al Comunale and&ograve; in scena una stracittadina unica, risolta dal gol del centrocampista toscano e impreziosita dalle perle di Pietro Anastasi e Claudio Sala

26 marzo 1972, Torino-Juve: quel gol di Agroppi che decise il derby

        Fiorentina-Juventus non &egrave; mai stata una partita come le altre. La rivalit&agrave; affonda le sue radici addirittura negli anni &rsquo;20, quando la Vecchia Signora umili&ograve; i viola battendoli per 11-0, esattamente il 7 ottobre del 1928. Da l&igrave; in poi la storia di questa sfida ha vissuto numerose tappe, come ad esempio la celebre semifinale di Coppa Italia del 1960/1961.&nbsp; Hidegkuti contro Parola&nbsp; Le due formazioni il 10 maggio del 1961 si affrontano in gara unica per determinare chi approder&agrave; in finale. Albertosi contro Mattrel, Da Costa contro Charles, ma soprattutto Hidegkuti (affiancato da Chiappella) contro Parola (affiancato da Gren) definiscono bene il livello dell&rsquo;incontro. I due allenatori, anche se con storie diametralmente opposte, sono delle vere leggende viventi: l&rsquo;ungherese alla guida della Viola faceva parte della Squadra d&rsquo;Oro che stup&igrave; il mondo negli anni &rsquo;50, rivoluzionando tra l&rsquo;altro completamente il ruolo di centravanti e schierandosi qualche metro arretrato, inventando con buoni 50 anni di anticipo il moderno falso nove. Dall&rsquo;altro lato Carlo Parola non ha bisogno di molte presentazioni: arcigno ma elegante difensore, raggiunse grande notoriet&agrave; pi&ugrave; o meno 10 anni prima proprio in un Fiorentina-Juventus, quando venne immortalata la sua celeberrima rovesciata poi ripresa e stilizzata sugli album di figurine Panini. Inoltre, lo scontro offre un interessante spunto: la&nbsp;Viola &ndash; attesa una settimana dopo anche dalla finale di Coppa delle Coppe &ndash; vuole assolutamente vendicare la finale di Coppa Italia della stagione precedente, persa proprio contro la Juve solo dopo i tempi supplementari (3-2). Dominio viola Al Comunale di Firenze l&rsquo;ambiente &egrave; molto pi&ugrave; che caldo: oltre ai numerosi tifosi di casa, &egrave; presente un ben nutrito gruppo di supporters juventini, storicamente sempre presenti in ogni luogo d&rsquo;Italia dove gioca la Vecchia Signora. Ciononostante l&rsquo;inerzia della partita &egrave; tutta in mano alla Fiorentina sin dalle primissime battute. I padroni di casa incalzano i bianconeri, con Robotti in difesa che annulla letteralmente un troppo timido Fascetti, e un Da Costa in avanti che semina scompiglio nella retroguardia juventina. Approfittando della superiorit&agrave; in mezzo al campo, la Viola passa in vantaggio al 17&rsquo; con Milan e prima della mezz&rsquo;ora rischia addirittura il raddoppio. Dall&rsquo;altra parte la Juventus, nonostante le difficolt&agrave;, riesce ad agguantare il pareggio grazie alla rete dal dischetto di Mora al 33esimo minuto. Le due formazioni vanno a riposo sull&rsquo;1-1, anche se &egrave; evidente che il risultato &egrave; destinato ben presto a cambiare. Dopo appena 6 minuti infatti &egrave; la Viola ad approfittare di un penalty e passare in vantaggio con Marchesi. Da l&igrave; in poi il dominio della Fiorentina si fa sempre pi&ugrave; evidente, fino alla chiosa di Da Costa, che firma il 3-1 e consegna ai suoi le chiavi per accedere alla finalissima. Una stagione indimenticabile con l'accoppiata Coppa Italia-Coppa delle Coppe Un ultimo atto che vedr&agrave; la squadra allenata da Hidegkuti trionfare contro la Lazio un mese pi&ugrave; tardi. Grazie al successo, la Fiorentina metter&agrave; in bacheca una storica accoppiatta: la vittoria in Coppa Italia era infatti stata preceduta dalla conquista della Coppa delle Coppe, primo e unico trofeo internazionale della storia viola.&nbsp;         

In quell&rsquo;occasione venne scritto l&rsquo;ennesimo capitolo di una storica rivalit&agrave; del nostro calcio, a spuntarla furono i viola&nbsp;

Fiorentina-Juventus: la sfida in semifinale di Coppa Italia del 1960/1961

        &ldquo;Ho iniziato nella Pier Giorgio Frassati a San Bernardino, giocavo con i ragazzi pi&ugrave; grandi di me all'oratorio. Poi sono passato per dieci anni al Crema e da l&igrave; all'Atalanta e ho iniziato la trafila faticosa che fanno migliaia di ragazzini, spinti da sogni e speranze. In quei momenti non sai se i tuoi sacrifici saranno premiati, rinunci a molto, al tempo con gli amici, ai fine settimana, alle gite. Conta molto anche la fortuna e la voglia di arrivare. A 15 anni mi stavo disamorando del calcio, avevo un tecnico all'Atalanta a cui non piacevo, poi &egrave; arrivato Prandelli e un mese dopo ero capitano degli Allievi Nazionali. Ho esordito a 17 anni in prima squadra all'Atalanta e a diciannove anni sono partito per Torino.&rdquo; Con queste parole Alessio Tacchinardi racconta i sacrifici, le incertezze e le paure che caratterizzano probabilmente i primi passi di ogni calciatore. Lui, per sua fortuna, &egrave; riuscito a realizzare i suoi sogni, diventando uno dei migliori centrocampisti italiani della sua generazione, colonna portante della Juventus degli anni &rsquo;90 e 2000.&nbsp; Gli inizi in provincia e l&rsquo;arrivo in bianconero Come detto poc&rsquo;anzi, Tacchinardi nasce a Crema dove si mette in mostra nelle giovanili locali prima di essere prelevato dall&rsquo;Atalanta. Durante gli anni bergamaschi Prandelli non &egrave; l&rsquo;unico allenatore a credere in lui: sul suo cammino incontra Eugenio Perico e Fermo Favini, che contribuiscono a farlo diventare il leader di un gruppo di futuri professionisti. In quella squadra giocavano infatti Paolo Foglio, Tomas Locatelli, Domenico Morfeo e Gianluca Savoldi, figlio del famosissimo Beppe. Nella stagione 1992/1993 inizia ad allenarsi stabilmente con la prima squadra, fino ad esordire ancora minorenne contro l&rsquo;Ancona. La sua parentesi da professionista nella Dea dura poco perch&eacute; nel frattempo la Juve, scoperto il giovane talento, decide di portarlo a Torino nell&rsquo;estate del 1994.&nbsp; Una vita con la Vecchia Signora e la parentesi al Villarreal &ldquo;Per me la Juve &egrave; stata una pagina importantissima: ero e sono ancora un tifoso della Juve e per me allenarmi al Comunale, dove andavo a vedere la Juve e Platini da tifoso, era il massimo. La Juve &egrave; una grande famiglia, una grande societ&agrave; con valori fortissimi e ti inculcano nella testa la mentalit&agrave; vincente&rdquo;. Quello tra Alessio Tacchinardi e la Juve &egrave; un amore lunghissimo, iniziato quando era un bambino e mai terminato. In bianconero passa moltissimi anni, diventando una colonna portante della squadra. Utilizzato per una piccola parentesi della sua carriera come difensore, d&agrave; il meglio al centro del campo di fianco a Edgar Davids: i due formano una mediana formidabile. Nel corso dei suoi anni in bianconero vincer&agrave; 5 campionati 4 Supercoppe italiane, una Coppa Italia, una Champions League, una Supercoppa Uefa, una Coppa Intercontinentale e una Coppa Intertoto, diventando uno dei giocatori bianconeri pi&ugrave; vincenti di sempre. Nel 2005, ormai trentenne, viene ceduto in prestito al Villarreal. Qui, sotto la guida di Manuel Pellegrini, fa parte del gruppo che nella stagione 2005-06 raggiunge una storica semifinale di Champions League. Gli spagnoli si arrendono solo all'Arsenal di Arsene Wenger, con tanto di beffa nella partita di ritorno, quando Tacchinardi non &egrave; in campo per squalifica e Riquelme sbaglia un rigore decisivo al 90&deg;. Proprio "El mudo" era l'anima di quella squadra, mentre in campo Tacchinardi gli copriva le spalle. L'ex centrocampista ha parlato cos&igrave; dei suoi rimpianti legati alla Champions League ai microfoni di Sport Mediaset: "Il calcio mi ha lasciato quattro cicatrici: le tre finali che ho perso con la Juventus&nbsp;e&nbsp;la semifinale di ritorno non giocata contro l'Arsenal a El Madrigal, quando Rom&aacute;n Riquelme ha sbagliato il rigore. Ogni volta che sento l'inno della Champions in televisione ho un minuto di depressione totale per aver perso tre finali e per&nbsp;non esserci arrivato con il Villarreal, perch&eacute; avevamo giocato una Champions League impressionante. Sono stato ammonito, quel cartellino giallo a Londra &egrave; stato un peccato che non mi ha permesso di giocare quella partita. Era una grande sfida".&nbsp;Anche nella Liga si conferma ai suoi livelli collezionando ben 61 presenze e 3 reti in due stagioni. Nel 2007-08 torna in Italia per scendere in B con il Brescia dove, al termine di una buona stagione, decide di dire addio al calcio giocato.&nbsp;       

Il centrocampista lombardo, dopo aver vinto praticamente tutto con la Vecchia Signora, ha passato due stagioni in Spagna vestendo la maglia del "Sottomarino Giallo"

Villarreal-Juventus: Tacchinardi, una vita in bianconero e poi la Liga

        Quando Nen&eacute; approda in Sardegna, ha gi&agrave; giocato con Pel&eacute; e Sivori. Buono di carattere, figlio d&rsquo;arte, ha un padre calciatore che al pallone ha dato pi&ugrave; di quanto abbia ricevuto e per questo si &egrave; messo a fare l&rsquo;elettricista. La mamma vorrebbe che il figlio ne seguisse l&rsquo;ultimo esempio, ma il richiamo del bianconero del Santos &egrave; troppo forte. &Egrave; la squadra di Pel&eacute;, che a 17 anni ha gi&agrave; vinto un Mondiale e incantato una nazione. Segna alla prima in bianconero, contro la Juventude di Sao Paulo. In bianconero continuer&agrave;, in una squadra che alla stessa giovent&ugrave; si ispira, prima ancora che la giovinezza diventasse simbolo di una diversa stagione, gi&agrave; dalla nascita sulla panchina di un liceo molto ben frequentato gi&agrave; quel primo novembre 1897. Nen&eacute;, ormai sar&agrave; chiaro, dopo aver vinto diversi titoli fra campionato paulista, Coppa Libertadores e Coppa Intercontinentale, arriva alla Juventus colpita da questo brasiliano che dialoga con Pel&eacute; con una naturalezza disarmante. Il tecnico Amaral lo dispone sulla linea di Sivori in un sostanziale 4-2-4 dai risultati balbettanti. Ma quel brasiliano educato e garbato, che a Torino incontra la sua futura moglie, piace a tutti. Amaral viene esonerato, arriva Monzeglio, gentiluomo d&rsquo;altri tempi, che lo dirotta al centro dell&rsquo;attacco. La Juve ha bisogno di cancellare il ricordo di Charles, ma Nen&eacute; &egrave; al massimo un centrocampista offensivo, un attaccante esterno, non certo un numero 9. Nemmeno 11 gol gli valgono la conferma. Nen&eacute; e la storia d'amore con il Cagliari&nbsp; Un&rsquo;isola che guarda il mare &egrave; una protezione dalla nostalgia. &Egrave; un abbraccio davanti al blu delle possibilit&agrave;. La Sardegna nell&rsquo;Italia del boom economico, delle 600 sull&rsquo;Autostrada del Sole e dei frigoriferi comprati con le cambiali sembra ancora un luogo lontano. Ma non c&rsquo;&egrave; posto abbastanza distante dall&rsquo;orizzonte di Nen&eacute; che a Cagliari mette piede nel 1964.&nbsp;&Egrave; il Cagliari di Riva, Albertosi e Boninisegna, che gi&agrave; nell&rsquo;Italia dei movimenti studenteschi culla il desiderio di scudetto. Un sogno realizzato la stagione successiva, in quel 1970 che per Brera ha davvero spinto la Sardegna nella geografia italiana. Cagliari e la Sardegna tutta lo adotta, come ha fatto con Gigi Riva, come poi far&agrave; con Fabrizio De Andr&eacute; all&rsquo;Agnata ripagandolo anche con un sequestro da prima pagina. Come il cantautore genovese, in questi posti davanti al mare, con questi cieli sopra il mare, Nen&eacute; non si sapr&agrave; raccontare ma rimane. Gioca fino al 1976, quando del suo Cagliari restano solo i ricordi. Maestro da giocatore, di calcio e fair play, &egrave; stato a lungo lo straniero con pi&ugrave; presenze nel club, 311, superato poi da Diego Lopez. &Egrave; diventato poi maestro di giovani, e ha ripercorso la stessa tratta allenando a Cagliari e alla Juventus, dopo i successi con la Primavera della Fiorentina. In bianconero &egrave; stato tecnico di Claudio Marchisio che l&rsquo;ha omaggiato di un dolce ricordo nel giorno della morte: "Ho avuto la fortuna di averti come allenatore, mi hai insegnato a calciare con tutti e due i piedi".&nbsp;La sua &egrave; una collana anche di dolori e difficolt&agrave;, che si chiude in un ospizio di Capoterra, periferia di Cagliari. Muore qui, nel 2016. Protetto dalla nostalgia.        

Arriv&ograve; nel 1964 dopo gli anni? al Santos di Pel&eacute; e alla Juventus con Sivori. Gioc&ograve; 12 stagioni, vinse uno storico scudetto e nell&rsquo;isola rest&ograve; per tutta la vita

Nené, il “brasiliano di Sardegna” che ha fatto la storia del Cagliari

        &Egrave; l&rsquo;8 novembre 1992 quando il Delle Alpi si trasforma in una vera e propria passerella. Questa volta, per&ograve;, sono due i campioni che si dividono la scena. Nei momenti che accompagnano il pubblico alla gara tocca a Maurizio Damilano. &Egrave; il giorno dell&rsquo;addio per un grande campione che lascia: un oro e due bronzi alle Olimpiadi, due titoli iridati e 9 campionati italiani per il numero uno della nostra atletica leggera degli anni &rsquo;80. Un marciatore sensazionale che si congeda ricevendo un&rsquo;ovazione caldissima nello stadio torinese, dopo essersi esibito in una gara amichevole insieme ai pi&ugrave; grandi avversari provenienti da tutto il mondo. A pochi minuti dal fischio d&rsquo;inizio di Juventus-Udinese saluta con la sciarpa bianconera al collo, leggendo commosso un lungo striscione che recita: &ldquo;Grazie Maurizio per le emozioni che ci hai fatto vivere&rdquo;. Poi, dalla pista di atletica la magia si sposta sul manto erboso. La scena se la prende tutta il pi&ugrave; straordinario artista del nostro calcio: il Divin Codino, Roberto Baggio. Il poker di Baggio contro l&rsquo;Udinese La sua prestazione contro l&rsquo;Udinese &egrave; da incorniciare: a livello personale la pi&ugrave; prolifica nell&rsquo;immensa carriera del campione di Caldogno. Lo show inizia al minuto 20' del primo tempo, quando Torricelli va via sulla destra e regala al numero 10 il pi&ugrave; facile dei tap-in per l&rsquo;1-0 della Juve. Appena due minuti pi&ugrave; tardi ci pensa Sensini a rendere tutto semplice: l&rsquo;argentino si fa scippare palla da Moeller che serve in profondit&agrave; Baggio. Il 10 s&rsquo;invola verso la porta, salta un avversario e batte il portiere ospite Di Sarno. La Juve non &egrave; sazia e nel giro di 5 minuti, di fatto, chiude la partita: al 25&rsquo; sul traversone dello scatenato Moeller, la conclusione di Baggio trova la deviazione di Pellegrini e finisce in porta. Con le regole moderne sarebbe tripletta per il Divin Codino, ma sul tabellone del Delle Alpi si legge autorete del difensore friulano. Poco importa, perch&eacute; la rete firmata da Balbo al 37&rsquo; &egrave; un fuoco di paglia per gli ospiti, che solo cinque minuti pi&ugrave; tardi capitolano ancora. Il terzo gol personale del numero 10 &egrave; una perla di rara bellezza: addomestica con la coscia sinistra un difficile pallone che spiove dalle retrovie e conclude a rete con una botta terrificante, che quasi piega le mani a Di Sarno. E se nella ripresa l&rsquo;arbitro Cardona le prova tutte pur di non far segnare il poker al Divino &ndash; prima annulla la trasformazione ancora su invito di Moeller, poi lascia correre su un possibile episodio da rigore &ndash;, nulla pu&ograve; al minuto 86, quando Roberto appoggia in rete su assist di Galia per il 5-1 finale. Baggio e il duello a distanza con Van Basten Una prestazione straordinaria, un unicum nella carriera di un campione irripetibile, che mai aveva segnato (e mai segner&agrave;) quattro reti in una sola gara. Le stesse che nel frattempo ha fatto Marco van Basten sul campo del Napoli, scaturendo il medesimo risultato in favore del Milan (1-5). A fine gara ai microfoni della Rai Baggio ci scherza su: &ldquo;Con lui non si pu&ograve; mai scherzare, purtroppo non ti da mai la soddisfazione di passare una domenica in pace, Marco&rdquo;. Ma se il &rsquo;92 sar&agrave; l&rsquo;anno del Cigno di Utrecht (che di l&igrave; a poco verr&agrave; premiato con il terzo personalissimo Pallone d&rsquo;Oro), Baggio &ndash; che nel frattempo divide inspiegabilmente la critica &ndash; si appresta a trascinare la Juventus alla conquista della Coppa Uefa, preparandosi per essere l&rsquo;erede proprio di Van Basten nell&rsquo;olimpo dorato di France Football.       

Nel precedente giocato l&rsquo;8 novembre di 30 anni fa il Delle Alpi salut&ograve; Maurizio Damilano e celebr&ograve; la classe infinita del Divin Codino, autore di quattro reti

Juve-Udinese, nel 1992 l'unico poker in carriera per Roberto Baggio

        Lo chiamavano &ldquo;El Flaco&rdquo; per la sua magrezza, eppure in campo sapeva come farsi rispettare con il pallone tra i piedi. Enrique Domingo Flamini, nato a Rosario il 17 aprile 1917 e morto a Roma l&rsquo;11 gennaio 1982, &egrave; stato uno dei giocatori simbolo della Lazio degli anni &rsquo;40 e &rsquo;50. L&rsquo;oriundo che scopre il biancoceleste, se ne innamora e vi si lega in maniera indissolubile, anche nel corso della sua carriera da allenatore. Ben 271 presenze e 44 gol in campionato con la maglia della Lazio, con alcuni acuti storici, per poi diventare un totem del settore giovanile laziale nelle vesti di mister. Il 22 gennaio 1950, a Torino, and&ograve; in scena una delle sue recite indimenticabili: Juventus-Lazio 1-2. La partita e la doppietta di Flamini Da una parte i bianconeri di Parola e Boniperti, dall&rsquo;altra la Lazio dei Sentimenti (IV e III), grandi ex apprezzatissimi dal tifo juventino, delle scorribande di Puccinelli e, ovviamente del &ldquo;Flaco&rdquo; Flamini. Oltre all&rsquo;italo-argentino, il protagonista della sfida &egrave; Cecconi, che gi&agrave; sullo 0-0 aveva seriamente spaventato gli avversari colpendo un palo e costringendo a un paio di miracoli Viola: &egrave; lui a ispirare la rete del vantaggio dopo una ventina di minuti servendo l&rsquo;assist a Flamini, bravo a battere sotto porta l&rsquo;incolpevole estremo difensore bianconero. Il copione si ripete in maniera praticamente identica otto giri d&rsquo;orologio pi&ugrave; tardi: ancora Cecconi a guidare l&rsquo;azione centralmente prima dell&rsquo;apertura a sinistra, in piena area, per Flamini, che da posizione leggermente defilata riesce comunque a trafiggere Viola presentandosi a tu?per?tu con?il portiere?bianconero. La Juve si rimette in carreggiata con un gioiello di Hansen, imparabile per Sentimenti IV. I biancocelesti non si rintanano, continuano a creare pericoli su pericoli ma tremano alla mezz&rsquo;ora della ripresa, quando Galeati indica il dischetto per un presunto fallo di Alzani, che scatena le proteste laziali. Dal dischetto va Mari che spedisce a lato. Linfa vitale per la Lazio vicina anche al tris &ndash; spreca Hofling &ndash; e in difficolt&agrave; soltanto sull&rsquo;ultimo tentativo di Praest, respinto da Sentimenti IV. Per i ragazzi di Sperone &egrave; festa grande, un successo che vendica la sconfitta dell&rsquo;andata e che si colloca all&rsquo;interno di un&rsquo;ottima stagione biancoceleste, chiusa con il quarto posto in classifica alle spalle proprio dei bianconeri, campioni d&rsquo;Italia, e del duo Milan-Inter. La Lazio potr&agrave; per&ograve; vantare la miglior difesa del torneo insieme a quella della Juventus, con 43 reti subite. Una retroguardia che, nella sfida di Torino, aveva oscurato la stella di Giampiero Boniperti. &nbsp; &nbsp; &nbsp; &nbsp;       

Nel giorno dell&rsquo;anniversario della morte di uno dei simboli biancocelesti, ricordiamo la leggendaria sfida del gennaio 1950 contro i bianconeri decisa da una doppietta del &ldquo;Flaco&rdquo;

Lazio, quando Enrique Flamini punì la Juventus

        Dalle parti di casa lo chiamano &ldquo;Pollicino&rdquo;, per via della struttura minuta del corpo. Ma un istante dopo, col pallone al piede, al piccolo Thomas si accende una luce adulta negli occhi; cambia postura e diventa un gigante. Palleggia a pochi passi dal Muro, nel quartiere di Wedding, in una Berlino ancora divisa: "Qualche volta il pallone finiva dall&rsquo;altra parte, nella DDR", racconta.&nbsp;"Forse poi, chiss&agrave;, magari ci giocavano i VoPos&hellip;" (soprannome della Volkspolizei, la Polizia Popolare tedesca, ndr). Non ama studiare ed &egrave; certo che il proprio destino lo scriver&agrave; sui campi di calcio. &Egrave; ambidestro, con un grande controllo di palla, ha il dribbling secco. Punta, scarta, salta l&rsquo;uomo con naturalezza. E sui calci piazzati &egrave; un autentico cecchino. L'approdo in Italia con la Juventus Si mette in luce nel Colonia, porta a casa un Mondiale e attira le attenzioni della Serie A. La Roma lo segue con interesse, ma la proposta repentina da parte della Juventus lo convince: aspira a vincere trofei importanti anche con una squadra di club, non solo in Nazionale. I bianconeri reduci dal double, Coppa Italia e Coppa UEFA, gli sembrano la realt&agrave; ideale per consacrarsi definitivamente. Arriva a Torino per 11 miliardi, con l&rsquo;arduo compito di sostituire un altro brevilineo, Rui Barros. Ma il portoghese, opportunista e col fiuto del gol, ha caratteristiche molto differenti dalle sue. L&rsquo;eredit&agrave; &egrave; pesante e Thomas, sebbene pi&ugrave; tecnico, fatica a trovare uno spazio congeniale. &Egrave; abituato a giocare da mezzala, concedendosi il gusto di accentrarsi e scegliere tra assist e dribbling verso la porta. Qui si ritrova relegato sulla destra con la consegna di nuotare cento vasche in linea retta, con ben poca soddisfazione. Soffre il cambio d&rsquo;aria e le difficolt&agrave; linguistiche: "In Italia tutto &egrave;&hellip; di pi&ugrave;", sintetizza. "Pubblico, soldi, giornali, squadre, problemi". Lo frustra &ndash; lui cos&igrave; rapido nei pensieri e nell&rsquo;esecuzione &ndash; non riuscire a esprimersi e non comprendere ogni cosa con immediatezza. Si sente solo e a met&agrave;. Fa un po&rsquo; amicizia con Marocchi e con la moglie Barbara &ndash; lui parla inglese, lei mastica un po&rsquo; di tedesco &ndash; ma non riesce ad ambientarsi come vorrebbe. In campo ci prova, ma resta impantanato nelle pastoie della Juve di Maifredi. Il mister lo chiama &ldquo;Il Baggio di Germania&rdquo;, ma la macchina non gira. Le incomprensioni sono evidenti cos&igrave; come la stagione bianconera risulta opaca, addirittura priva del piazzamento per l&rsquo;Europa. E allora Thomas fa le valigie, ora s&igrave;, in direzione Roma. Destinazione Roma Nonostante la sua annata poco brillante, i bianconeri riescono ad ottenere 12 miliardi per il cartellino di H&auml;ssler, sfruttando l&rsquo;interesse prolungato e chiaro da parte dei giallorossi. Dal canto suo, la Roma gli regala una diversa zona di competenza e nuove motivazioni. "Anche facendo mente locale, non riesco a trovare momenti diffici li, ripensando ai miei anni nella Capitale", dice socchiudendo lievemente gli occhi per verificare. Ed &egrave; davvero il suo momento pi&ugrave; felice, quello tra il 1991 e il 1994. Anche se non vince trofei, conquista qualcosa di altrettanto prezioso: l&rsquo;affetto della Sud, che gli dedica un coro ormai storico. Ancora oggi, infatti, nessuno pu&ograve; ascoltare il motivetto che accompagna l&rsquo;incastro dei pezzi del tetris senza intonare &ldquo;Tommasino H&auml;ssler-gol&rdquo;. Prende in mano la linea mediana della squadra giallorossa, il folletto di Berlino, esprimendo finalmente al meglio le sue capacit&agrave; tecniche e le doti balistiche. Le sue punizioni dalla distanza fanno scuola, nel vero senso del termine. Tanto pi&ugrave; che una volta, a fine allenamento, gli si accosta un ragazzino chiedendogli il permesso di calciarle con lui. Pur non sapendo chi sia, H&auml;ssler gli allunga un pallone e lo invita a tirare. "Non so se si possa dire che abbia imparato a batterle da me &ndash; racconta oggi &ndash; ma aveva una buona tecnica e si capiva che aveva carattere". Il ragazzino in questione, neanche a dirlo, &egrave; il giovane Francesco Totti. Gol memorabili Se gli si chiede quale sia la rete a cui &egrave; pi&ugrave; affezionato, non ha dubbi: &egrave; il classico gol dell&rsquo;ex. Con ancora in corpo le scorie di una stagione intera giocata fuori ruolo, il 28 febbraio 1993 infila la porta bianconera con un tiro da fuori che si insacca all&rsquo;angolino. 2-1 per la Roma: gioco, partita, incontro. Se si fa la medesima domanda ai tifosi della Roma, invece, pi&ugrave; di qualcuno risponder&agrave;: &ldquo;Il gol al derby&rdquo;. Perch&eacute; la soddisfazione di spegnere il ghigno di trionfo dal volto dell&rsquo;avversario in una stracittadina &egrave; un&rsquo;emozione che non ha prezzo. Tommasino risponde al vantaggio di Sosa e rimette le cose un minimo a posto, guadagnandosi un posto speciale nell&rsquo;Olimpo di chi ha bucato &ldquo;gli altri&rdquo;. Termina la carriera ritornando sui propri passi, l&igrave; dove aveva iniziato, senza dimenticare di portare a casa un Europeo con la sua Germania. Pur vivendo la contraddizione di aver vinto i trofei pi&ugrave; prestigiosi in Nazionale e pressoch&eacute; nulla (una Coppa Intertoto) con le squadre di club, Thomas &ldquo;Tommasino&rdquo; H&auml;ssler resta senza dubbio uno dei pi&ugrave; brillanti centrocampisti tedeschi degli anni &rsquo;90. &nbsp;       

Nella sua unica stagione in bianconero Maifredi lo soprannomin&ograve; &ldquo;Il Baggio di Germania&rdquo;, nella Capitale la Curva Sud gli dedic&ograve; un coro: &ldquo;Tommasino H&auml;ssler-gol&rdquo;. E le sue punizioni hanno fatto scuola&hellip;

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